Pronuncia 135/1993

Sentenza

Collegio

composta dai signori: Presidente: prof. Francesco Paolo CASAVOLA; Giudici: avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Antonio BALDASSARRE, avv. Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI, dott. Renato GRANATA, prof. Giuliano VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI, prof. Cesare MIRABELLI, prof. Fernando SANTOSUOSSO;

Epigrafe

ha pronunciato la seguente nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 640, secondo comma, numero 1, del codice penale, promosso con ordinanza emessa il 12 maggio 1992 dal Tribunale di Rieti nel procedimento penale a carico di Volpe Sergio ed altri, iscritta al n. 484 del registro ordinanze 1992 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell'anno 1992; Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; Udito nella camera di consiglio del 10 febbraio 1993 il Giudice relatore Giuliano Vassalli; Ritenuto che il Tribunale di Rieti, dopo aver premesso come, alla luce della evoluzione subita dal quadro normativo e giurisprudenziale, abbia finito per prevalere la "tesi privatistica" che assegna carattere d'impresa alla attività di raccolta del risparmio e di esercizio del credito, indipendentemente dalla natura pubblica o privata degli enti che la esercitano, cosicché risulta parificata "la qualificazione soggettiva dei dipendenti bancari" essendo ormai priva di rilievo, a tal fine, la natura dell'istituto cui fanno capo, ha osservato che, mentre nella ipotesi di appropriazione indebita il patrimonio dell'ente creditizio è garantito allo stesso modo a prescindere dalla natura pubblica o privata dell'ente, ove l'aggressione sia stata realizzata mediante frode il patrimonio della banca è diversamente tutelato sul piano penale a seconda che si tratti di ente pubblico o privato, anche se nelle due fattispecie poste a raffronto (appropriazione indebita e truffa) identica è "la natura del bene protetto (l'integrità del patrimonio), la qualificazione soggettiva dell'autore del reato (operatore bancario) e la natura privatistica e imprenditoriale dell'attività esercitata"; che, alla stregua delle riferite considerazioni, il giudice a quo solleva, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione di legittimità dell'art. 640, secondo comma, numero 1, del codice penale, ponendo a fondamento della propria censura l'irragionevole disparità di trattamento sanzionatorio tra l'operatore bancario che risponde di truffa in danno di un istituto di credito privato (art. 640, primo comma, del codice penale) e quello che ha commesso il medesimo reato ai danni di un ente creditizio pubblico (art. 640, secondo comma, n. 1, dello stesso codice), in relazione, altresì, all'identico trattamento che viene invece riservato ad entrambi i soggetti nella distinta ipotesi della appropriazione indebita, parimenti iscritta nel Capo II, Titolo XIII, Libro II, del codice penale, dedicato ai "delitti contro il patrimonio mediante frode"; che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura Generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o non fondata; Considerato che se, da un lato, l'inquadramento della ordinaria attività bancaria nella sfera del privato si è rivelata produttiva di immediati effetti in ordine alla configurabilità di determinate fattispecie che si tipizzano in ragione della particolare qualità del soggetto attivo del reato, cosicché si è esclusa l'applicabilità, nei confronti dei dipendenti delle aziende di credito di diritto pubblico, "delle norme penali previste dal Capo I del Titolo Secondo del codice penale, perché gli impiegati degli enti creditizi pubblici, quando esercitano detta attività, non esercitano una pubblica funzione amministrativa" (v. Sentenza n. 309 del 1988), deve per altro verso rilevarsi come la natura privatistica che caratterizza l'attività del credito non possa ritenersi in sé idonea ad escludere la qualità pubblica dell'ente che la esercita, ove tale qualità risalti, come nella specie, ai fini di una più penetrante tutela che l'ordinamento appresta quando gli interessi generali di cui l'ente è portatore sono offesi dal reato; che la ontologica ragionevolezza della tutela rafforzata di cui l'ente pubblico gode svela, pertanto, l'infondatezza della doglianza, la quale pretende di assumere a fondamento della censura una disparità di trattamento che trova invece adeguata giustificazione nella diversa qualità, non dei soggetti attivi, ma delle parti offese dal delitto di truffa; che, d'altra parte, non potendosi il delitto previsto dall'art. 640 del codice penale iscrivere nel novero dei cosiddetti reati propri, la circostanza che il delitto stesso sia stato realizzato da un dipendente di una azienda di credito evoca una questione di mero fatto che non incide sulla struttura della fattispecie, giacché identico permane il trattamento sanzionatorio anche nella ipotesi in cui il reato sia commesso da un "estraneo" alla azienda; e che, di conseguenza, la questione deve essere dichiarata manifestamente infondata; Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale;

Dispositivo

per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE Dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 640, secondo comma, numero 1, del codice penale, sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal Tribunale di Rieti con l'ordinanza in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 marzo 1993. Il Presidente: CASAVOLA Il redattore: VASSALLI Il cancelliere: DI PAOLA Depositata in cancelleria il 1° aprile 1993. Il direttore della cancelleria: DI PAOLA

Relatore: Giuliano Vassalli

Data deposito: Thu Apr 01 1993 00:00:00 GMT+0000 (Coordinated Universal Time)

Tipologia: O

Presidente: CASAVOLA

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Massime

ORD. 135/93. REATO IN GENERE - TRUFFA - TRUFFA IN DANNO DI DIPENDENTI DI ISTITUTI DI CREDITO PUBBLICO COMMESSA DA DIPENDENTI DEGLI STESSI - DIVERSA QUALIFICAZIONE DEL FATTO (TRUFFA AI DANNI DELLO STATO O DI ALTRI ENTI PUBBLICI) E PIU' ASPRO TRATTAMENTO SANZIONATORIO (ART. 640, SECONDO COMMA, COD.PEN.) RISPETTO A QUANTO PREVISTO (ART. 640, PRIMO COMMA, COD.PEN.) PER LA STESSA CONDOTTA, NEI CONFRONTI DI ISTITUTI DI CREDITO PRIVATI - PROSPETTATA VIOLAZIONE DEL PRINCIPIO DI EGUAGLIANZA - ESCLUSIONE - MANIFESTA INFONDATEZZA DELLA QUESTIONE.

La natura privatistica che caratterizza l'attivita' del credito non puo' ritenersi in se' idonea ad escludere la qualita' pubblica dell'ente che la esercita, ove tale qualita' risalti, come nella specie, ai fini di una piu' penetrante tutela che l'ordinamento appresta quando gli interessi generali di cui l'ente e' portatore sono offesi dal reato. La disparita' di trattamento sanzionatorio tra l'operatore bancario che risponde di truffa ai danni dell'istituto di credito privato (art. 640, primo comma, cod.pen.) e quello che ha commesso la stessa condotta ai danni dell'ente creditizio pubblico, sanzionata piu' severamente a norma dell'art. 640, secondo comma, cod.pen., trova quindi giustificazione nella diversa qualita' non dei soggetti attivi, ma delle parti offese dal delitto di truffa. Infatti, anche nella ipotesi in cui il reato sia commesso da un "estraneo" all'azienda, identico permane il trattamento sanzionatorio. (Manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale, in riferimento all'art. 3 Cost., dell'art. 640, secondo comma, cod.pen.). - Sulla inapplicabilita' nei confronti dei dipendenti delle aziende di credito di diritto pubblico in quanto, quando esercitano detta attivita', non esercitano una pubblica funzione amministrativa, delle norme previste dal Capo I^ del Titolo Secondo del codice penale, v. sentenza n. 309/1988.