Reati e pene - Reato di atti persecutori - Fattispecie consistente in condotte reiterate, minacce o molestie che cagionino un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero un fondato timore per l'incolumità propria o di altri ovvero l'alterazione delle abitudini di vita - Asserita violazione del principio di determinatezza delle fattispecie penali - Insussistenza - Non fondatezza della questione.
Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 612- bis cod. pen. che disciplina il reato di atti persecutori, impugnato, in riferimento all'art. 25, secondo comma, Cost., per violazione del principio di determinatezza. La fattispecie in esame si configura come specificazione delle condotte di minaccia o di molestia contemplate dagli artt. 612 e 660 cod. pen.; nel prevedere un'autonoma figura di reato il legislatore ha, infatti, ulteriormente connotato tali condotte, richiedendo che siano realizzate in modo reiterato e idoneo a cagionare almeno uno degli eventi indicati (stato di ansia o di paura, timore per l'incolumità e cambiamento delle abitudini di vita), al fine di circoscrivere la nuova area di illecito a specifici fenomeni di molestia assillante che si caratterizzano per un atteggiamento predatorio nei confronti della vittima. Il reato di cui all'art. 612- bis cod. pen. non attenua, dunque, in alcun modo la determinatezza della incriminazione rispetto alle fattispecie di molestie o di minacce, tenuto conto anche del "diritto vivente" che qualifica il delitto in questione come reato abituale di evento. Inoltre, il ricorso a una enunciazione sintetica della norma incriminatrice, anziché alla analitica enumerazione dei comportamenti sanzionati, non comporta, di per sé, un vizio di indeterminatezza, purché attraverso l'interpretazione integrata, sistemica e teleologica, si pervenga, come nella specie, alla individuazione di un significato chiaro, intelligibile e preciso dell'enunciato. - Per l'affermazione che una restituzione degli atti a seguito di ius superveniens , non giustificata dalla necessità di un nuovo esame della rilevanza e della non manifesta infondatezza, potrebbe comportare un dilatamento dei tempi dei giudizi a quibus , in contrasto con il principio della durata ragionevole del processo, sancito dall'art. 111 Cost., v. la citata sentenza n. 186/2013. - Sul metodo da seguire per accertare l'osservanza del principio di determinatezza, nel senso che «occorre non già valutare isolatamente il singolo elemento descrittivo dell'illecito, bensì collegarlo con gli altri elementi costitutivi della fattispecie e con la disciplina in cui questa s'inserisce», v., da ultimo, la citata sentenza n. 282/2010. - Sulla portata del principio di determinatezza, nel senso che «nella dizione dell'art. 25 Cost., che impone espressamente al legislatore di formulare norme concettualmente precise sotto il profilo semantico della chiarezza e dell'intelligibilità dei termini impiegati, deve logicamente ritenersi anche implicito l'onere di formulare ipotesi che esprimano fattispecie corrispondenti alla realtà», v. la citata sentenza n. 96/1981. - Sulla compatibilità con il principio di determinatezza dell'uso, nella formula descrittiva dell'illecito penale, di una «tecnica esemplificativa» oppure di «concetti extragiuridici diffusi» o ancora di «dati di esperienza comune o tecnica», v. rispettivamente le citate sentenze nn. 79/1982, 42/1972, 126/1971, 191/1970, 120/1963 e 27/1961. - In particolare, sull'ammissibilità dell'uso di formule "elastiche", v. le citate sentenze nn. 302/2004 e 5/2004. - Sul principio di offensività quale canone interpretativo nella individuazione della condotta penalmente rilevante, v., ex plurimis , le citate sentenze nn. 139/2014 e 62/1986.