Articolo 96 - COSTITUZIONE
Massime della Corte Costituzionale
Testo dell'articolo aggiornato secondo le disposizioni legislative vigenti.
Testo dell'articolo aggiornato secondo le disposizioni legislative vigenti.
È inammissibile il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato promosso dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale ordinario di Milano nei confronti del Senato della Repubblica che, con deliberazione del 2 luglio 2015 (doc. IV- bis , n. 2-A), ha fornito una qualificazione giuridica dei fatti ascritti a Tremonti Giulio diversa da quella prospettata dal Tribunale dei Ministri. Il conflitto risulta carente del requisito di ordine soggettivo prescritto dall'art. 37, primo comma, della legge n. 87 del 1953 in quanto il GIP ricorrente, come dallo stesso dichiarato, non possiede «alcuna competenza funzionale» in ordine alla valutazione circa la natura ministeriale del reato. Proprio alla luce di tale mancanza di competenza, il ricorrente non può che disporre la trasmissione degli atti al Collegio per i reati ministeriali, costituito ex art. 7 della legge costituzionale n. 1 del 1989, da ritenersi necessaria, ai sensi del precedente art. 6, ogni qual volta venga ravvisata, quantomeno sotto il profilo del dubbio, l'ipotizzabilità di un reato ministeriale dal p.m. o, successivamente, dal GIP. Sulla possibilità che il ramo del Parlamento competente ai sensi dell'art. 96 Cost. possa esprimere una propria valutazione sulla natura del fatto contestato al ministro, purché essa si collochi all'interno della procedura per reato ministeriale attivata dall'autorità giudiziaria, v. le citate sentenze nn. 29/2014, 88/2012 e 87/2012. Sull'affermazione che il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato si estende a comprendere ogni ipotesi in cui dall'illegittimo esercizio di un potere altrui consegua la menomazione di una sfera di attribuzioni costituzionalmente assegnate all'altro soggetto, v. la citata sentenza n. 110/1970. Sulla possibilità che un conflitto fra poteri sorga anche a fronte di un'omissione lesiva di attribuzioni altrui, v., ex plurimis , le citate sentenze nn. 241/2009 e 406/1989.
È ammissibile il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato dalla Corte di Cassazione nei confronti del Senato della Repubblica in relazione alla deliberazione del 22 luglio 2009 che, accogliendo le conclusioni della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari, dichiara il carattere ministeriale dei reati di ingiuria e di diffamazione contestati al senatore Roberto Castelli. La Corte di Cassazione, infatti, è legittimata alla proposizione del ricorso, essendo stata ritualmente investita a seguito di ricorso per saltum proposto avverso la sentenza di proscioglimento pronunciata dal Tribunale di Roma in forza della summenzionata delibera del Senato ed avendo, altresì, un interesse concreto ed attuale, tenuto conto dell'oggetto sul quale essa è chiamata a pronunciarsi. Inoltre, appaiono infondate le censure relative alla presunta carenza di indicazione del parametro ed all'ambiguità dell'oggetto del ricorso in quanto, da un lato, il ricorrente svolge un chiaro riferimento all'insussistenza dei presupposti per l'applicazione della guarentigia dell'art. 96 Cost. e, dall'altro lato, risultano meramente assertive le doglianze sollevate dal Senato relative all'ambiguità dell'oggetto. È, altresì, inconferente la mancata allegazione del resoconto della seduta relativa alla votazione della delibera in contestazione in quanto, nel caso di resoconti parlamentari, è sufficiente l'indicazione dei relativi atti.
Nel conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato dalla Corte di Cassazione nei confronti del Senato della Repubblica in relazione alla deliberazione del 22 luglio 2009 che dichiarava il carattere ministeriale dei reati di ingiuria e di diffamazione contestati al senatore Roberto Castelli, non spettava al Senato della Repubblica deliberare, ai fini dell'esercizio della prerogativa di cui all'art. 96 Cost., il carattere ministeriale delle ipotesi di reato contestate al senatore Castelli, all'epoca dei fatti Ministro della giustizia, nonché deliberare la sussistenza in ordine alle medesime ipotesi di reato della finalità di cui all'art. 9, comma 3, della l. cost. n. 1 del 1989, sul presupposto che egli abbia agito per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell'esercizio della funzione di Governo. Infatti, qualora il Tribunale dei ministri abbia espresso valutazione negativa in ordine alla natura ministeriale dei reati oggetto di indagine e quest'ultima sia stata trasmessa al Presidente della Camera competente a cura del Procuratore della Repubblica ai sensi dell'art. 8, comma 4, della l. cost. n. 1 del 1989, la Camera competente, in caso di disaccordo, ha quale unico potere di vindicatio quello di contestare, per conflitto costituzionale, la qualificazione del fatto come reato non ministeriale da parte della autorità giudiziaria procedente. A tal punto, è di esclusiva competenza della Corte Costituzionale dirimere il contenzioso ed assegnare definitivamente la corretta qualificazione costituzionale dei fatti ascritti al parlamentare-ministro, agli effetti della correttezza o meno del procedimento adottato. - Sull'obbligo gravante sul Tribunale per i reati ministeriali di trasmettere gli atti al Procuratore della Repubblica affinché quest'ultimo dia comunicazione al Presidente della Camera competente, ex art. 8, comma 4, della l. cost. n. 1/1989 (e sulle conseguenze dell'omessa comunicazione all'organo parlamentare) v. la sentenza, richiamata in motivazione, n. 241/2009. - Sull'accertamento della qualifica dei fatti ascritti al parlamentare-ministro v. la sentenza n. 88/2012.
Va affermata definitivamente l'ammissibilità del conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato dal Senato della Repubblica nei confronti del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli, e del Giudice dell'udienza preliminare di quest'ultimo Tribunale, chiedendo alla Corte di dichiarare che non spettava a tali organi aprire e proseguire un procedimento penale a carico del Ministro della giustizia in carica all'epoca dei fatti Clemente Mastella, senza trasmettere, invece, gli atti ai sensi dell'art. 6 della legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1 (Modifiche degli articoli 96, 134 e 135 della Costituzione e della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1, e norme in materia di procedimenti per i reati di cui all'articolo 96 della Costituzione), perché di tale procedimento fosse investito il Collegio per i reati ministeriali, e, comunque, senza informare la Camera competente ai sensi dell'art. 96 della Costituzione. Non vi sono dubbi, in particolare, circa la legittimazione a sollevare conflitto da parte del Senato della Repubblica cui spetterebbe pronunciarsi ai sensi dell'art. 96 Cost. nel caso di specie, giacché il ministro non è allo stato membro del Parlamento, né più lo era, ammesso che ciò rilevi, quando l'autorità giudiziaria, adottando gli atti di cui si chiede l'annullamento, si sarebbe sottratta al proprio dovere di devolvere l'indagine al tribunale dei ministri, e comunque di informarne il Senato (art. 5 della legge cost. n. 1 del 1989). Né può venire in contestazione la legittimazione a resistere dei Procuratori della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere e di Napoli e del Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Napoli, in quanto investiti, con riferimento alla vicenda oggetto di conflitto, gli uni della quota di potere costituzionale preposta all'esercizio dell'azione penale e allo svolgimento delle indagini ad esso finalizzate e l'altro dell'esercizio di funzioni giurisdizionali svolte in posizione di piena indipendenza. Né la circostanza che il ricorso abbia ad oggetto atti tipici propri del potere giudiziario ne compromette, nel caso di specie, l'ammissibilità. Se è vero, infatti, che il conflitto di attribuzione non può degenerare, a pena di inammissibilità, in strumento atipico di impugnazione diretto contro atti giurisdizionali, è altrettanto indubbio che tale principio non è invocabile, tuttavia, nelle ipotesi in cui venga posta in discussione non già la fedele applicazione della legge da parte dell'autorità giudiziaria, ma l'assunzione da parte di quest'ultima di una decisione estranea all'ambito oggettivo della giurisdizione di cui il magistrato è titolare, comunque idonea a menomare l'altrui attribuzione costituzionale: e, secondo la prospettazione del Senato della Repubblica, coltivando l'azione penale nelle forme ordinarie, PM e GIP, avrebbero esercitato una funzione, rispettivamente di indagine e di giudizio, che non sarebbe loro spettata. Il Senato della Repubblica non ha posto, con l'odierno ricorso, un mero problema di regolamento di confini tra competenza dell'autorità giudiziaria comune e tribunale dei ministri, al quale sarebbe infatti stata estranea: piuttosto, l'investitura del tribunale dei ministri, secondo il ricorrente, sarebbe prodromica al coinvolgimento della Camera competente nella valutazione concernente la ministerialità del reato. L'adempimento previsto dall'art. 6 della legge cost. n. 1 del 1989 viene perciò ricostruito come finalizzato non soltanto ad attivare l'organo giurisdizionale competente, ma anche a soddisfare una prerogativa costituzionale direttamente e senza mediazioni intestata alla Camera dei deputati, ai sensi dell'art. 96 Cost. Ciò che viene in rilievo, pertanto, non è la questione di competenza in sé, ma il fatto che, omettendo di trasmettere gli atti al tribunale dei ministri, l'autorità giudiziaria avrebbe menomato l'attribuzione costituzionale propria del Senato della Repubblica, per l'esercizio della quale detto tribunale agirebbe da indefettibile cerniera di collegamento. - Per la delibazione dell'ammissibilità senza contraddittorio a norma dell'art. 37, terzo e quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, del medesimo conflitto v. la richiamata ordinanza n. 104 del 2011. - In ordine alla legittimazione attiva del Senato della Reopubblica a sollevare conflitto al fine di difendere le attribuzioni alla stessa spettanti ai sensi dell'art. 96 Cost., v., ex multis , le sentenze n. 241 del 2009 e n. 403 del 1994; nonché le ordinanze n. 313 e n. 241 del 2011, n. 211 del 2010, n. 8 del 2008 e n. 217 del 1994, tutte richiamate in sentenza. - In ordine alla legittimazione passiva nel conflitto di attribuzione del Procuratore della Repubblica, v. ex multis , le citate ordinanze n. 276 del 2008, n. 73 del 2006 e n. 404 del 2005; in ordine a quella del Giudice per le indagini preliminari, v. la sentenza n. 241 del 2009 e le ordinanze n. 241 del 2011, n. 211 del 2010 e n. 8 del 2008, richiamate in sentenza.
In merito al conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato dal Senato della Repubblica nei confronti del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli, e del Giudice dell'udienza preliminare di quest'ultimo Tribunale - chiedendo alla Corte di dichiarare che non spettava a tali organi aprire e proseguire un procedimento penale a carico del Ministro della giustizia in carica all'epoca dei fatti Clemente Mastella, senza trasmettere, invece, gli atti ai sensi dell'art. 6 della legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1 (Modifiche degli articoli 96, 134 e 135 della Costituzione e della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1, e norme in materia di procedimenti per i reati di cui all'articolo 96 della Costituzione), perché di tale procedimento fosse investito il Collegio per i reati ministeriali, e, comunque, senza informare la Camera competente ai sensi dell'art. 96 della Costituzione - va affermato che spettava al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere iniziare un procedimento penale nei confronti del ministro Mastella per reati ritenuti comuni, al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli proseguirlo ed esercitare l'azione penale con una duplice richiesta di rinvio a giudizio, ed al Giudice dell'udienza preliminare di quest'ultimo tribunale procedere a propria volta nelle forme comuni, rigettando l'eccezione di "incompetenza funzionale" prospettatagli dalla difesa e quindi omettendo di trasmettere gli atti al Collegio previsto dall'art. 7 della legge cost. n. 1 del 1989. Secondo la tesi del ricorrente, l'art. 6 della legge cost. n. 1 del 1989 obbligherebbe il pubblico ministero che abbia acquisito una notizia di reato a carico del Presidente del Consiglio dei ministri, ovvero di un ministro, ad attivarsi, perché il procedimento sia assegnato al collegio di cui al successivo art. 7, in modo che, tramite quest'ultimo, il competente ramo del Parlamento possa interloquire nella fattispecie, difendendo le proprie attribuzioni. Secondo tale prospettazione, in definitiva, sarebbe sufficiente la sola qualità soggettiva dell'autore del fatto a incardinare la competenza riservata del tribunale dei ministri, ferma la possibilità che, all'esito delle indagini, tale organo disponga la c.d. archiviazione asistematica. Tale tesi è in evidente contrasto con la formulazione della norma, giacché è proprio l'art. 6 della legge cost. n. 1 del 1989 a prevedere, in modo puntuale, che siano destinati al tribunale dei ministri i rapporti, i referti e le denunzie concernenti «i reati indicati dall'articolo 96 della Costituzione», ovvero commessi nell'esercizio delle funzioni. Solo ammettendo, in contrasto palese con l'art. 96 Cost., che un illecito penale acquisisca carattere ministeriale in ragione della sola qualifica rivestita dall'autore di esso sarebbe sostenibile che la lettera della legge costituzionale autorizzi a trarre le conclusioni suggerite dalla ricorrente. Per contro, nel vigente ordine costituzionale, il principio di generale attribuzione all'autorità giudiziaria ordinaria dell'esercizio della giurisdizione penale, salvo le eccezionali e restrittive deroghe stabilite espressamente dalla fonte superprimaria, non incontra alcun limite ulteriore, e torna così in modo del tutto naturale ed automatico a governare la fattispecie della responsabilità penale del Presidente del Consiglio dei ministri, ovvero di un ministro, in accordo con i principi di uguaglianza, legalità e giustiziabilità dei diritti, ribaditi, quanto ai pubblici funzionari, dall'art. 28 Cost. A tale proposito, la giurisprudenza costituzionale ha già affermato che sussiste nel nostro ordinamento una «generale competenza delle autorità giudiziarie all'accertamento dei presupposti della responsabilità», la quale si segnala per costituire la parola ultima, e di regola definitiva, che l'ordinamento giuridico pronuncia a livello nazionale. La competenza in questione non può che implicare la preliminare attività di qualificazione del reato, o per meglio dire il giudizio con cui un accadimento materiale viene ricondotto alla previsione generale di una o più disposizioni di legge, che lo sottraggono all'area di ciò che è giuridicamente indistinto per conferirgli una identità normativa, alla quale conseguono i tipici effetti processuali e sostanziali stabiliti dalla legge. Nel caso di specie, componente costitutiva di un tale giudizio è la stessa natura, ministeriale o comune, del reato, dalla quale deriva nel primo caso l'investitura del tribunale dei ministri, e successivamente del ramo competente del Parlamento, ovvero, nel secondo caso, l'osservanza delle ordinarie regole sull'accertamento della responsabilità penale. In difetto di esplicite deroghe costituzionali, agli altri poteri dello Stato, e tra questi alla Camera competente ai sensi dell'art. 96 Cost., non spetta alcuna attribuzione in merito, con la conseguenza che non ha fondamento la pretesa di interloquire con l'autorità giudiziaria, secondo un canale istituzionale indefettibilmente offerto dal tribunale dei ministri, nelle ipotesi in cui quest'ultima, esercitando le proprie esclusive prerogative, abbia stimato il reato privo del carattere della ministerialità e, nell'esercizio delle stesse, abbia approfondito detto profilo, esplicitando le ragioni a conforto di tale qualificazione. La vicenda che costituisce oggetto del ricorso concerne, infatti, reati che l'autorità giudiziaria ha ritenuto immediatamente privo di carattere funzionale poiché commessi dal ministro nella qualità di segretario di un partito politico, e la cui natura ministeriale non è stata dedotta in atti e neppure posta a fondamento del conflitto. In tali circostanze, non solo il potere giudiziario, ritenendo i reati di natura comune, poteva omettere di investire il tribunale dei ministri della notizia di reato, ma ne era costituzionalmente obbligato, ai sensi del combinato disposto degli artt. 96 Cost. e 6 della legge cost. n. 1 del 1989, non essendogli possibile sottrarsi all'accertamento della penale responsabilità nelle forme proprie della giurisdizione ordinaria penale (art. 112 Cost.), se non in presenza delle deroghe tassative prescrivibili dalla sola Costituzione, e che neppure il legislatore ordinario potrebbe ampliare . - Sul principio di generale attribuzione all'autorità giudiziaria ordinaria dell'esercizio della giurisdizione penale, che, salvo le eccezionali e restrittive deroghe stabilite espressamente dalla fonte superprimaria, non incontra alcun limite ulteriore, v. la richiamata sentenza n. 154 del 2004. - Sull'affermazione secondo cui le immunità riconosciute ai pubblici poteri, introducendo una deroga eccezionale al generale principio di uguaglianza, non possono che originarsi dalla Costituzione, v. la richiamata sentenza n. 262 del 2009. - Sulla costante giurisprudenza costituzionale che esclude che le immunità costituzionali possano trasmodare in privilegi, come accadrebbe se una deroga al principio di uguaglianza innanzi alla legge potesse venire indotta direttamente dalla carica ricoperta, anziché dalle funzioni inerenti alla stessa, v., in relazione alle guarentigie dei membri del Parlamento, le sentenze n. 10 e n. 11 del 2000; in relazione a quelle relative ai membri del Consiglio regionale, la sentenza n. 289 del 1997; con riferimento alla responsabilità penale del Capo dello Stato, la sentenza n. 154 del 2004; con riferimento all'immunità sostanziale dei componenti del Consiglio superiore della magistratura per le opinioni espresse nell'esercizio delle funzioni, la sentenza n. 148 del 1983; con riferimento alla responsabilità per reato ministeriale, la sentenza n. 6 del 1970, tutte richiamate in sentenza.
In merito al conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato dal Senato della Repubblica nei confronti del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli, e del Giudice dell'udienza preliminare di quest'ultimo Tribunale - chiedendo alla Corte di dichiarare che non spettava a tali organi aprire e proseguire un procedimento penale a carico del Ministro della giustizia in carica all'epoca dei fatti Clemente Mastella, senza trasmettere, invece, gli atti ai sensi dell'art. 6 della legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1 (Modifiche degli articoli 96, 134 e 135 della Costituzione e della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1, e norme in materia di procedimenti per i reati di cui all'articolo 96 della Costituzione), perché di tale procedimento fosse investito il Collegio per i reati ministeriali, e, comunque, senza informare la Camera competente ai sensi dell'art. 96 della Costituzione - va affermato che spettava tanto alle Procure di Santa Maria Capua Vetere e di Napoli, quanto al Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Napoli, procedere per reato comune nei confronti del Ministro della giustizia in carica all'epoca dei fatti, omettendo di informarne il Senato della Repubblica. E' da escludersi, infatti, che un tale dovere possa ricavarsi dalle disposizioni costituzionali concernenti il procedimento per reato ministeriale, ed in particolar modo dall'art. 8, comma 4, della legge cost. n. 1 del 1989, che inerisce esclusivamente ai casi di archiviazione. Né il fondamento costituzionale dell'attribuzione rivendicata dal Senato potrebbe ricercarsi nel principio di leale collaborazione tra i poteri dello Stato, dal quale si vorrebbe desumere una regola informativa che - senza mutare la natura e la pienezza dei poteri di accertamento del giudice comune - verrebbe ad aggiungersi ad essi su di un piano parallelo, obbligandolo a rendere edotta la Camera competente del fatto storico, affinché quest'ultima sia posta nelle condizioni di valutarne la natura, e, se del caso, di reagire immediatamente con lo strumento del conflitto. Invero - considerato che presupposto perché la leale collaborazione venga a dettare regole di azione è la convergenza dei poteri verso la definizione, ciascuno secondo la propria sfera di competenza, di una fattispecie di rilievo costituzionale, ove essi, piuttosto che separati, sono invece coordinati dalla Costituzione, affinché la fattispecie si definisca per mezzo dell'apporto pluralistico dei soggetti tra cui è frazionato l'esercizio della sovranità - è evidente che il principio di leale collaborazione non abbia a declinarsi laddove non vi sia confluenza delle attribuzioni e la separazione costituisca l'essenza delle scelte compiute dalla Costituzione, al fine di ripartire ed organizzare le sfere di competenza costituzionale: fenomeno, questo, che si manifesta soprattutto rispetto al potere giudiziario, cui l'attuale sistema costituzionale fissa limiti rigidi alle prospettive di interazione con gli altri poteri. Nell'ipotesi di reato comune, il Parlamento, in difetto di una norma espressa, non ha dunque titolo per pretendere che l'azione del potere giudiziario sia aggravata da un ulteriore adempimento di tipo informativo, giacché essa si esaurisce interamente nella sfera di attribuzioni proprie di quest'ultimo, e non interferisce con altrui prerogative, fino a che il presupposto circa la ministerialità del reato non sia invece rivendicato in concreto dalla Camera competente. La sola ipotesi, del tutto astratta, che il reato possa essere stato commesso nell'esercizio delle funzioni ministeriali non è sufficiente, in altri termini, in presenza della generale clausola di competenza dell'autorità giudiziaria, a far scaturire, anche in via meramente potenziale, un'area comune di interferenza fra attribuzioni parlamentari e dell'ordine giudiziario, essendo a tal fine necessario che le prime siano state in concreto poste in collegamento con le seconde per iniziativa della Camera competente.
Nel giudizio per conflitto di attribuzioni sollevato dalla Camera dei deputati nei confronti del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Milano e del Giudice per le indagini preliminari di quest'ultimo Tribunale, in relazione alle indagini poste in essere dal PM (nell'ambito del procedimento penale R.G.N.R. n. 55781/2010) nei confronti dell'on. Silvio Berlusconi, membro della Camera dei deputati, Presidente del Consiglio dei ministri in carica, ed alla richiesta ed emissione di decreto di giudizio immediato, non può essere accolta, in quanto infondata, l'eccezione, formulata dalla difesa del Procuratore della Repubblica di Milano, di inammissibilità dell'intervento del Senato della Repubblica in ragione della mancata illustrazione delle conclusioni nel relativo atto di costituzione. L' art. 37, quinto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87» (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale) stabilisce che al giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato è applicabile l'art. 25 di detta legge, che disciplina la costituzione in giudizio delle parti; l'art. 24 delle citate norme integrative, concernente la disciplina di detto giudizio, al comma 4, rende, inoltre, applicabile al medesimo, tra gli altri, l'art. 3 di tali norme. Stabilendo che la costituzione delle parti avviene «mediante deposito in cancelleria della procura speciale, con la elezione del domicilio, e delle deduzioni comprensive delle conclusioni», quest'ultima disposizione (analogamente a quella sottesa all'art. 19, comma 3, delle norme integrative) non subordina l'ammissibilità o validità della costituzione in giudizio all'adempimento ivi previsto, poiché, come già chiarito con altra pronuncia sullo specifico punto (sentenza n. 168 del 2010), «la corretta instaurazione del contraddittorio, in nome di un principio generale di diritto processuale, è subordinata al rispetto dei previsti termini perentori, mentre la disposizione secondo cui l'atto di costituzione della parte resistente deve contenere anche l'illustrazione delle conclusioni mira a sollecitare una adeguata prospettazione delle rispettive posizioni sin dall'ingresso delle parti nel giudizio, ai fini di un arricchimento della dialettica processuale». Il thema decidendum è, inoltre, circoscritto dal ricorso e le argomentazioni sviluppate nell'atto di costituzione «sono dirette a fornire elementi idonei a influenzare, sotto forma di fattori di conoscenza e di deduzioni logiche, il convincimento dell'organo giudicante intorno alle specifiche questioni» dibattute, mentre la mancata costituzione in giudizio della parte resistente o l'allegazione di rilievi insufficienti neppure conducono necessariamente all'accoglimento della questione sollevata con il ricorso, sicché è interesse della parte far valere le proprie ragioni in giudizio, adempiendo l'onere di prospettare argomenti difensivi. La disposizione mira, quindi, a stimolare l'apporto argomentativo delle parti, senza che siano prefigurabili conseguenze sanzionatorie nel caso di mancata illustrazione delle conclusioni formulate nell'atto di costituzione della parte convenuta o dell'interveniente, con conseguente non fondatezza dell'eccezione.
Va affermata definitivamente l'ammissibilità del conflitto di attribuzione sollevato dalla Camera del Deputati nei confronti del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Milano e del Giudice per le indagini preliminari di quest'ultimo Tribunale, in relazione alle indagini poste in essere dal PM (nell'ambito del procedimento penale R.G.N.R. n. 55781/2010) nei confronti dell'on. Silvio Berlusconi, membro della Camera dei deputati, Presidente del Consiglio dei ministri in carica, ed alla richiesta di giudizio immediato formulata in data 9 febbraio 2011 (nell'ambito del procedimento penale R.G.N.R. n. 5657/11), relativamente al contestato delitto di concussione, nonché - sempre in riferimento solo a tale ultimo reato - al decreto di giudizio immediato, in data 15 febbraio 2011, del GIP (nell'ambito del procedimento R.G.G.I.P. n. 1297/11). Non è dubbia, infatti, la legittimazione a sollevare conflitto da parte della Camera dei deputati, al fine di difendere le attribuzioni alla stessa spettanti ai sensi dell'art. 96 Cost. Parimenti pacifica deve ritenersi la legittimazione a resistere del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Milano e del Giudice per le indagini preliminari di detto Tribunale, in quanto investiti, con riferimento alla vicenda oggetto di conflitto, il primo della quota di potere costituzionale preposta all'esercizio dell'azione penale e allo svolgimento delle indagini ad esso finalizzate, il secondo dell'esercizio di funzioni giurisdizionali svolte in posizione di piena indipendenza. Né la circostanza che il ricorso abbia ad oggetto atti tipici propri del potere giudiziario ne compromette, nel caso di specie, l'ammissibilità. Se è vero, infatti, che il conflitto di attribuzione non può degenerare, a pena di inammissibilità, in strumento atipico di impugnazione diretto contro atti giurisdizionali, è altrettanto indubbio che tale principio non è invocabile, tuttavia, nelle ipotesi in cui venga posta in discussione non già la fedele applicazione della legge da parte dell'autorità giudiziaria, ma l'assunzione da parte di quest'ultima di una decisione estranea all'ambito oggettivo della giurisdizione di cui il magistrato è titolare, comunque idonea a menomare l'altrui attribuzione costituzionale: e, secondo la prospettazione della Camera dei deputati, coltivando l'azione penale nelle forme ordinarie, PM e GIP, avrebbero esercitato una funzione, rispettivamente di indagine e di giudizio, che non sarebbe loro spettata. La Camera dei deputati non ha posto, con l'odierno ricorso, un mero problema di regolamento di confini tra competenza dell'autorità giudiziaria comune e tribunale dei ministri, al quale sarebbe infatti stata estranea: piuttosto, l'investitura del tribunale dei ministri, secondo la ricorrente, sarebbe prodromica al coinvolgimento della Camera competente nella valutazione concernente la ministerialità del reato. L'adempimento previsto dall'art. 6 della legge cost. n. 1 del 1989 viene perciò ricostruito come finalizzato non soltanto ad attivare l'organo giurisdizionale competente, ma anche a soddisfare una prerogativa costituzionale direttamente e senza mediazioni intestata alla Camera dei deputati, ai sensi dell'art. 96 Cost. Ciò che viene in rilievo, pertanto, non è la questione di competenza in sé, ma il fatto che, omettendo di trasmettere gli atti al tribunale dei ministri, l'autorità giudiziaria avrebbe menomato l'attribuzione costituzionale propria della Camera dei deputati, per l'esercizio della quale detto tribunale agirebbe da indefettibile cerniera di collegamento.
In merito al conflitto di attribuzione sollevato dalla Camera del Deputati nei confronti del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Milano e del Giudice per le indagini preliminari di quest'ultimo Tribunale - in relazione alle indagini poste in essere dal PM (nell'ambito del procedimento penale R.G.N.R. n. 55781/2010) nei confronti dell'on. Silvio Berlusconi, membro della Camera dei deputati, Presidente del Consiglio dei ministri in carica, ed alla richiesta di giudizio immediato formulata in data 9 febbraio 2011 (nell'ambito del procedimento penale R.G.N.R. n. 5657/11), relativamente al contestato delitto di concussione, nonché, sempre in riferimento solo a tale ultimo reato, al decreto di giudizio immediato, in data 15 febbraio 2011, del GIP (nell'ambito del procedimento R.G.G.I.P. n. 1297/11) - va affermato che spettava al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Milano avviare, esperire indagini e procedere alla richiesta di giudizio immediato in relazione al contestato delitto di concussione nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri, in carica all'epoca dei fatti, e del pari spettava al Giudice per le indagini preliminari di quest'ultimo Tribunale procedere, a propria volta, nelle forme comuni ed emettere il decreto di giudizio immediato, una volta ritenuto detto reato non commesso nell'esercizio delle funzioni, omettendo di trasmettere gli atti al Collegio previsto dall'art. 7 della legge cost. n. 1 del 1989. Secondo la tesi della ricorrente, l'art. 6 della legge cost. n. 1 del 1989 obbligherebbe il pubblico ministero che abbia acquisito una notizia di reato a carico del Presidente del Consiglio dei ministri, ovvero di un ministro, ad attivarsi, perché il procedimento sia assegnato al collegio di cui al successivo art. 7, in modo che, tramite quest'ultimo, il competente ramo del Parlamento possa interloquire nella fattispecie, difendendo le proprie attribuzioni. Secondo tale prospettazione, in definitiva, sarebbe sufficiente la sola qualità soggettiva dell'autore del fatto a incardinare la competenza riservata del tribunale dei ministri, ferma la possibilità che, all'esito delle indagini, tale organo disponga la c.d. archiviazione asistematica. Tale tesi è in evidente contrasto con la formulazione della norma, giacché è proprio l'art. 6 della legge cost. n. 1 del 1989 a prevedere, in modo puntuale, che siano destinati al tribunale dei ministri i rapporti, i referti e le denunzie concernenti «i reati indicati dall'articolo 96 della Costituzione», ovvero commessi nell'esercizio delle funzioni. Solo ammettendo, in contrasto palese con l'art. 96 Cost., che un illecito penale acquisisca carattere ministeriale in ragione della sola qualifica rivestita dall'autore di esso sarebbe sostenibile che la lettera della legge costituzionale autorizzi a trarre le conclusioni suggerite dalla ricorrente. Per contro, nel vigente ordine costituzionale, il principio di generale attribuzione all'autorità giudiziaria ordinaria dell'esercizio della giurisdizione penale, salvo le eccezionali e restrittive deroghe stabilite espressamente dalla fonte superprimaria, non incontra alcun limite ulteriore, e torna così in modo del tutto naturale ed automatico a governare la fattispecie della responsabilità penale del Presidente del Consiglio dei ministri, ovvero di un ministro, in accordo con i principi di uguaglianza, legalità e giustiziabilità dei diritti, ribaditi, quanto ai pubblici funzionari, dall'art. 28 Cost. A tale proposito, la giurisprudenza costituzionale ha già affermato che sussiste nel nostro ordinamento una «generale competenza delle autorità giudiziarie all'accertamento dei presupposti della responsabilità», la quale si segnala per costituire la parola ultima, e di regola definitiva, che l'ordinamento giuridico pronuncia a livello nazionale. La competenza in questione non può che implicare la preliminare attività di qualificazione del reato, o per meglio dire il giudizio con cui un accadimento materiale viene ricondotto alla previsione generale di una o più disposizioni di legge, che lo sottraggono all'area di ciò che è giuridicamente indistinto per conferirgli una identità normativa, alla quale conseguono i tipici effetti processuali e sostanziali stabiliti dalla legge. Nel caso di specie, componente costitutiva di un tale giudizio è la stessa natura, ministeriale o comune, del reato, dalla quale deriva nel primo caso l'investitura del tribunale dei ministri, e successivamente del ramo competente del Parlamento, ovvero, nel secondo caso, l'osservanza delle ordinarie regole sull'accertamento della responsabilità penale. In difetto di esplicite deroghe costituzionali, agli altri poteri dello Stato, e tra questi alla Camera competente ai sensi dell'art. 96 Cost., non spetta alcuna attribuzione in merito, con la conseguenza che non ha fondamento la pretesa di interloquire con l'autorità giudiziaria, secondo un canale istituzionale indefettibilmente offerto dal tribunale dei ministri, nelle ipotesi in cui quest'ultima, esercitando le proprie esclusive prerogative, abbia stimato il reato privo del carattere della ministerialità e, nell'esercizio delle stesse, abbia approfondito detto profilo, esplicitando le ragioni a conforto di tale qualificazione.La vicenda che costituisce oggetto del ricorso concerne, infatti, un reato (il reato di concussione, l'unico in relazione al quale è stato sollevato il conflitto) che l'autorità giudiziaria ha ritenuto immediatamente privo di carattere funzionale e la cui natura ministeriale non è stata posta a fondamento del conflitto. In tali circostanze, non solo il potere giudiziario, ritenendo il reato di natura comune, poteva omettere di investire il tribunale dei ministri della notizia di reato, ma ne era costituzionalmente obbligato, ai sensi del combinato disposto degli artt. 96 Cost. e 6 della legge cost. n. 1 del 1989, non essendogli possibile sottrarsi all'accertamento della penale responsabilità nelle forme proprie della giurisdizione ordinaria penale (art. 112 Cost.), se non in presenza delle deroghe tassative prescrivibili dalla sola Costituzione, e che neppure il legislatore ordinario potrebbe ampliare - Sul principio di generale attribuzione all'autorità giudiziaria ordinaria dell'esercizio della giurisdizione penale, che, salvo le eccezionali e restrittive deroghe stabilite espressamente dalla fonte superprimaria, non incontra alcun limite ulteriore, v. la richiamata sentenza n. 154 del 2004. - Sull'affermazione secondo cui le immunità riconosciute ai pubblici poteri, introducendo una deroga eccezionale al generale principio di uguaglianza, non possono che originarsi dalla Costituzione, v. la richiamata sentenza n. 262 del 2009. - Sulla costante giurisprudenza costituzionale che esclude che le immunità costituzionali possano trasmodare in privilegi, come accadrebbe se una deroga al principio di uguaglianza innanzi alla legge potesse venire indotta direttamente dalla carica ricoperta, anziché dalle funzioni inerenti alla stessa, v., in relazione alle guarentigie dei membri del Parlamento, le sentenze n. 10 e n. 11 del 2000; in relazione a quelle relative ai membri del Consiglio regionale, la sentenza n. 289 del 1997; con riferimento alla responsabilità penale del Capo dello Stato, la sentenza n. 154 del 2004; con riferimento all'immunità sostanziale dei componenti del Consiglio superiore della magistratura per le opinioni espresse nell'esercizio delle funzioni, la sentenza n. 148 del 1983; con riferimento alla responsabilità per reato ministeriale, la sentenza n. 6 del 1970, tutte richiamate in sentenza.
In merito al conflitto di attribuzione sollevato dalla Camera del Deputati nei confronti del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Milano e del Giudice per le indagini preliminari di quest'ultimo Tribunale - in relazione alle indagini poste in essere dal PM (nell'ambito del procedimento penale R.G.N.R. n. 55781/2010) nei confronti dell'on. Silvio Berlusconi, membro della Camera dei deputati, Presidente del Consiglio dei ministri in carica, ed alla richiesta di giudizio immediato formulata in data 9 febbraio 2011 (nell'ambito del procedimento penale R.G.N.R. n. 5657/11), relativamente al contestato delitto di concussione, nonché, sempre in riferimento solo a tale ultimo reato, al decreto di giudizio immediato, in data 15 febbraio 2011, del GIP (nell'ambito del procedimento R.G.G.I.P. n. 1297/11) - va affermato che spettava alla Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Milano ed al Giudice per le indagini preliminari di detto Tribunale esercitare le proprie attribuzioni, omettendo di informare la Camera dei deputati della pendenza del procedimento penale nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri in carica. Va infatti escluso che le fonti normative, costituzionali e primarie, abbiano introdotto l'obbligo dell'autorità giudiziaria di informare la Camera competente della pendenza del procedimento comune per reato attribuibile al Presidente del Consiglio dei ministri, ovvero ad un ministro, e nell'impossibilità di ricavare simile precetto dal principio di leale collaborazione, viene meno ogni fondamento giuridico su cui poggiare la pretesa della ricorrente di essere resa edotta dei fatti, dato che esso neppure è rinvenibile - come ha, invece, sostenuto la Camera dei deputati - nei «basilari canoni di ragionevolezza ed idoneità allo scopo che a mente dell'art. 3 Cost. presiedono all'interpretazione della legge».Tale canone non è, infatti, vulnerato da un'esegesi che, nel quadro di un ordinamento nel quale le immunità non possono che originarsi dalla Costituzione e sono soggette a stretta interpretazione, prevede l'intervento del tribunale dei ministri nelle sole ipotesi di illecito commesso nell'esercizio delle funzioni, collocandolo armonicamente nella regolamentazione di sistema, caratterizzata da un corretto bilanciamento dei principi di generale attribuzione all'autorità giudiziaria ordinaria della giurisdizione penale e di tutela delle attribuzioni costituzionali del Parlamento ex art. 96 Cost., dato che a quest'ultimo spetta l'accesso a questa Corte, per porre in discussione un eventuale erroneo esercizio delle proprie attribuzioni da parte del potere giudiziario che, eventualmente, abbia impedito alla Camera competente ai sensi di tale ultima norma della Costituzione di deliberare sull'autorizzazione a procedere, sollevando un conflitto avente contenuto diverso da quello proposto con il presente giudizio. La negazione dell'obbligo di informare la Camera competente comporta l'assorbimento dell'ulteriore questione, logicamente e giuridicamente subordinata, avente ad oggetto l'accertamento dell'idoneità dell'informazione fornita in occasione della più volte richiamata richiesta del PM di autorizzazione ad eseguire perquisizioni di alcuni locali nella disponibilità del Presidente del Consiglio dei ministri in carica a farlo ritenere adempiuto