Reati e pene - Aiuto al suicidio - Agevolazione dell'esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli - Non punibilità se la condotta agevolativa sia prestata con le modalità procedurali legislativamente previste per l'interruzione dei trattamenti di sostegno vitale (ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della sentenza in Gazzetta Ufficiale, sia stata prestata con modalità equivalenti), e le condizioni e modalità di esecuzione siano state verificate da strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale (SSN) previo parere del comitato etico territorialmente competente - Omessa previsione - Irragionevole limitazione della libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze - Illegittimità costituzionale in parte qua - Vigoroso auspicio di un intervento del legislatore.
È dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., l'art. 580 cod. pen., nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge n. 219 del 2017, ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi di cui in motivazione, agevola l'esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente. Sebbene la ratio della norma censurata dalla Corte d'assise di Milano può essere agevolmente scorta, alla luce del vigente quadro costituzionale, nella tutela del diritto alla vita, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili, che l'ordinamento penale intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio - considerazioni che valgono altresì ad escludere che essa si ponga, sempre e comunque sia, in contrasto con l'art. 8 CEDU - all'interno del petitum principale del rimettente va individuato, nondimeno, una circoscritta area di non conformità costituzionale della fattispecie criminosa. Essa corrisponde ai casi in cui l'aspirante suicida si identifichi in una persona (a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli, situazioni inimmaginabili all'epoca in cui la norma incriminatrice fu introdotta, ma portate sotto la sua sfera applicativa dagli sviluppi della scienza medica e della tecnologia. In tali casi, l'assistenza di terzi nel porre fine alla sua vita può presentarsi al malato come l'unico modo per sottrarsi, secondo le proprie scelte individuali, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare in base all'art. 32, secondo comma, Cost., parametro non evocato nel dispositivo nell'ordinanza di rimessione, ma più volte richiamato in motivazione. La legislazione oggi in vigore (leggi n. 38 del 2010 e n. 219 del 2017) - per la quale il medico può, con il consenso del paziente, ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, per fronteggiare sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari - infatti, non consente al medico di mettere a disposizione del paziente che versa nelle condizioni sopra descritte trattamenti diretti a determinarne la morte. Entro lo specifico ambito considerato, il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce dunque per limitare ingiustificatamente nonché irragionevolmente la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, imponendogli in ultima analisi un'unica modalità per congedarsi dalla vita. Deve, infine, essere sottolineata l'esigenza di adottare opportune cautele affinché l'opzione della somministrazione di farmaci in grado di provocare entro un breve lasso di tempo la morte del paziente non comporti il rischio di alcuna prematura rinuncia, da parte delle strutture sanitarie, a offrire sempre al paziente medesimo concrete possibilità di accedere a cure palliative diverse dalla sedazione profonda continua, ove idonee a eliminare la sua sofferenza. Il coinvolgimento in un percorso di cure palliative deve costituire, infatti, un pre-requisito della scelta, in seguito, di qualsiasi percorso alternativo da parte del paziente. La verifica delle condizioni che rendono legittimo l'aiuto al suicidio deve restare peraltro affidata - in attesa della declinazione che potrà darne il legislatore - a strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale, cui spetterà altresì verificare le relative modalità di esecuzione, le quali dovranno essere evidentemente tali da evitare abusi in danno di persone vulnerabili, da garantire la dignità del paziente e da evitare al medesimo sofferenze. La delicatezza del valore in gioco richiede, inoltre, l'intervento di un organo collegiale terzo, munito delle adeguate competenze, il quale possa garantire la tutela delle situazioni di particolare vulnerabilità; nelle more dell'intervento del legislatore, tale compito è affidato ai comitati etici territorialmente competenti. Quanto poi al tema dell'obiezione di coscienza del personale sanitario, la declaratoria di illegittimità costituzionale si limita a escludere la punibilità dell'aiuto al suicidio nei casi considerati, senza creare alcun obbligo di procedere a tale aiuto in capo ai medici. Resta affidato, pertanto, alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato. I requisiti procedimentali dianzi indicati, infine, valgono per i fatti successivi alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica: in quanto enucleate solo con la presente sentenza, in attesa dell'intervento del legislatore, le condizioni procedimentali in questione non possono infatti essere richieste, tal quali, in rapporto ai fatti anteriormente commessi. Occorrerà dunque che le condizioni suddette abbiano formato oggetto di verifica in ambito medico; che la volontà dell'interessato sia stata manifestata in modo chiaro e univoco, compatibilmente con quanto è consentito dalle sue condizioni; che il paziente sia stato adeguatamente informato sia in ordine a queste ultime, sia in ordine alle possibili soluzioni alternative, segnatamente con riguardo all'accesso alle cure palliative e, eventualmente, alla sedazione profonda continua. Non si può fare a meno, peraltro, di ribadire con vigore l'auspicio che la materia formi oggetto di sollecita e compiuta disciplina da parte del legislatore, conformemente ai principi. ( Precedenti citati: sentenze n. 236 del 2016, n. 229 del 2015, n. 96 del 2015, n. 35 del 1997, n. 223 del 1996 e n. 27 del 1975; ordinanza n. 207 del 2018 ). Dall'art. 2 Cost. - non diversamente che dall'art. 2 CEDU - discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello - diametralmente opposto - di riconoscere all'individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire. Che dal diritto alla vita, garantito dall'art. 2 CEDU, non possa derivare il diritto di rinunciare a vivere, e dunque un vero e proprio diritto a morire, è stato, del resto, da tempo affermato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, proprio in relazione alla tematica dell'aiuto al suicidio. Il principio del consenso informato del paziente al trattamento sanitario proposto dal medico è qualificabile come vero e proprio diritto della persona, che trova fondamento nei principi espressi negli artt. 2, 13 e 32 Cost. ( Precedenti citati: sentenze n. 253 del 2009 e n. 438 del 2008; ordinanza n. 207 del 2018 ). La tecnica decisoria per la quale si dichiara l'inammissibilità della questione sollevata, accompagnandola con un monito al legislatore per l'introduzione della disciplina necessaria a rimuovere il vulnus costituzionale, per cui, ove il monito rimanga senza riscontro, fa seguito, di norma, una declaratoria di incostituzionalità, ha l'effetto di lasciare in vita - e dunque esposta a ulteriori applicazioni, per un periodo di tempo non preventivabile - la normativa non conforme a Costituzione. La eventuale dichiarazione di incostituzionalità conseguente all'accertamento dell'inerzia legislativa presuppone, infatti, che venga sollevata una nuova questione di legittimità costituzionale, la quale può, peraltro, sopravvenire anche a notevole distanza di tempo dalla pronuncia della prima sentenza di inammissibilità. ( Precedente citato: ordinanza n. 207 del 2018 ). Non può essere ritenuta preclusiva della declaratoria di illegittimità costituzionale delle leggi la carenza di disciplina - reale o apparente - che da essa può derivarne, in ordine a determinati rapporti, perché occorre evitare che l'ordinamento presenti zone franche immuni dal sindacato di legittimità costituzionale: e ciò specie negli ambiti, come quello penale, in cui è più impellente l'esigenza di assicurare una tutela effettiva dei diritti fondamentali, incisi dalle scelte del legislatore. Ove, però, i vuoti di disciplina, pure in sé variamente colmabili, rischino di risolversi a loro volta in una menomata protezione di diritti fondamentali (suscettibile anch'essa di protrarsi nel tempo, nel perdurare dell'inerzia legislativa), la Corte costituzionale può e deve farsi carico dell'esigenza di evitarli, non limitandosi a un annullamento "secco" della norma incostituzionale, ma ricavando dalle coordinate del sistema vigente i criteri di riempimento costituzionalmente necessari, ancorché non a contenuto costituzionalmente vincolato, fin tanto che sulla materia non intervenga il Parlamento. A tale scopo si può provvedere con il collaudato meccanismo della "doppia pronuncia" (sentenza di inammissibilità "con monito" seguita, in caso di mancato recepimento di quest'ultimo, da declaratoria di incostituzionalità), oppure, con la diversa tecnica, che alla stessa logica si ispira, del rinvio disposto all'esito della precedente udienza cui segue, stante l'inerzia del legislatore, la rimozione del vulnus costituzionale. Decorso un congruo periodo di tempo, infatti, l'esigenza di garantire la legalità costituzionale deve, comunque sia, prevalere su quella di lasciare spazio alla discrezionalità del legislatore per la compiuta regolazione della materia, alla quale spetta la priorità. ( Precedenti citati: sentenze n. 96 del 2015, n. 162 del 2014, n. 113 del 2011, n. 99 del 2019, n. 40 del 2019, n. 233 del 2018, n. 222 del 2018, n. 236 del 2016 e n. 59 del 1958 ).