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Pronuncia 255/2009

Sentenza

Collegio

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici: Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

Epigrafe

ha pronunciato la seguente nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 667, comma 4, e 672 del codice di procedura penale, promosso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Forlì nel procedimento penale a carico di B. G. con ordinanza del 5 gennaio 2008, iscritta al n. 151 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 21, prima serie speciale, dell'anno 2008. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 6 maggio 2009 il Giudice relatore Giuseppe Frigo. Ritenuto che, con ordinanza depositata il 5 gennaio 2008 (r.o. n. 151 del 2008), il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Forlì solleva questione di legittimità costituzionale della disposizione combinata degli artt. 667, comma 4, e 672 del codice di procedura penale, nella parte in cui  secondo l'interpretazione fornita dalla Corte di cassazione, vincolante per il giudice a quo perché espressa, quale principio di diritto, in una sentenza attributiva di competenza  prevede che «all'applicazione dell'amnistia e dell'indulto si possa procedere senza formalità, intesa tale espressione come d'ufficio», prospettandone il contrasto con gli artt. 3, secondo comma, 24, primo comma, 27, terzo comma, 97, primo comma, 101, primo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione; che il giudice a quo espone, in fatto, che, con ordinanza del 21 marzo 2007, il Tribunale di Forlì, chiamato a decidere, come giudice dell'esecuzione, sull'eventuale applicazione dell'indulto a favore di B. G., condannato, con sentenza emessa dallo stesso Tribunale in data 22 marzo 2004, alla pena pecuniaria di euro 780 di multa, aveva dichiarato la propria incompetenza funzionale, rilevando che il beneficiando aveva riportato una successiva condanna a sola pena pecuniaria, a seguito di decreto penale emesso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Forlì, in data 7 maggio 2004, per cui la competenza sarebbe spettata, ai sensi dell'art. 665, comma 4, cod. proc. pen., a tale giudice; che, ricevuti gli atti, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Forlì aveva sollevato conflitto di competenza, evidenziando un difetto assoluto di competenza del giudice a decidere, in quanto  a suo avviso  la mancanza di una richiesta di parte non consentiva, ai sensi dell'art. 667, comma 4, cod. proc. pen., di procedere, nella fase dell'esecuzione, all'applicazione dell'indulto sulle pene pecuniarie; che, decidendo sul conflitto, la Corte di cassazione, con sentenza n. 3628 del 2007, depositata in data 23 novembre 2007, aveva dichiarato la competenza del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Forlì, affermando che la previsione normativa dell'art. 672, comma 1, cod. proc. pen., per la quale all'applicazione dell'amnistia o dell'indulto si procede «senza formalità», andava interpretata come «senza necessità di una formale richiesta da parte dei soggetti interessati»; che, in conseguenza di ciò, il giudice a quo reputa di dover sollevare la suddetta questione di legittimità costituzionale, ritenuta rilevante  in quanto l'interpretazione data dalla Corte di cassazione della disposizione combinata degli artt. 672, comma 1, e 667, comma 4, cod. proc. pen. lo obbliga a provvedere d'ufficio sull'applicazione dell'indulto  e altresì non manifestamente infondata; che la non manifesta infondatezza si apprezzerebbe, in primo luogo, con riferimento al principio di ragionevolezza, dato che il ritenere che il giudice dell'esecuzione possa applicare d'ufficio l'indulto alle pene pecuniarie sarebbe in contraddizione con quanto previsto dall'art. 212, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia - Testo A), così come integrato dalla circolare del Ministero della giustizia n. 11865 del 2007, in forza del quale, entro un mese dal passaggio in giudicato, o dalla definitività del provvedimento da cui sorge l'obbligo, l'ufficio per il recupero dei crediti ha il dovere «tassativo ed esclusivo» di procedere alla riscossione delle pene pecuniarie, non essendo prevista alcuna deroga dalla legge 31 luglio 2006, n. 241 (Concessione di indulto); che altrettanto non manifestamente infondato sarebbe il dubbio di incostituzionalità con riguardo all'art. 24, secondo comma, Cost., perché l'interpretazione censurata della norma impedirebbe di agire in giudizio per tutelare la propria posizione secondo le opportunità ritenute più convenienti, potendo il potenziale beneficiario avere interesse a non richiedere l'applicazione dell'indulto per una pena pecuniaria, considerato che, ai sensi dell'art. 174, secondo comma, del codice penale, si potrebbe usufruire di tale beneficio una sola volta; che, ulteriormente, si rileverebbe un conflitto con l'art. 27, terzo comma, Cost., perché «in caso di pena congiunta, la concessione d'ufficio dell'indulto consentirebbe di applicarlo alla sola pena pecuniaria o alla sola pena detentiva, a seconda delle contingenze e al di fuori di una previsione normativa ad hoc, con conseguente lesione del principio costituzionale di proporzionalità e adeguatezza della pena, e quindi della sua finalità rieducativa»; che, sotto altro profilo, se al giudice si attribuisce «la responsabilità di far rinunciare lo Stato, e quindi la collettività, a un'entrata», si determinerebbe la violazione dell'art. 101, primo comma Cost., per il quale la giustizia è amministrata in nome del popolo, e del principio del buon andamento della pubblica amministrazione, stabilito dall'art. 97, primo comma, Cost.; che, infine, la procedura imposta dalla Corte di cassazione, prevedendo che l'applicazione dell'indulto si può avviare d'ufficio e svolgere all'insaputa delle parti o quanto meno senza una istanza delle stesse, sarebbe in contrasto con l'art. 111, secondo comma, Cost., per il quale ogni processo si svolge nel contraddittorio delle parti e innanzi a un giudice terzo; che nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata. Considerato che il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Forlì solleva, in riferimento agli artt. 3, secondo comma, 24, primo comma, 27, terzo comma, 97, primo comma, 101, primo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale della disposizione combinata degli artt. 667, comma 4, e 672 del codice di procedura penale, nella parte in cui  secondo l'interpretazione vincolante data dalla Corte di cassazione  prevede che «all'applicazione dell'amnistia e dell'indulto si possa procedere senza formalità, intesa tale espressione come d'ufficio»; che, pertanto, il giudice rimettente non contesta in toto la legittimità della procedura semplificata prevista per l'applicazione dell'indulto, ma solo per la parte in cui prevede che il giudice dell'esecuzione possa, secondo quanto affermato dalla Corte di cassazione, adottare il provvedimento di concessione anche in assenza di istanza di parte; che, pur essendo rilevante nel giudizio a quo e ammissibile, la questione è manifestamente infondata con riguardo a tutti i parametri costituzionali evocati; che, in particolare, il contrasto con l'art. 3 Cost., sotto il profilo della ragionevolezza, non sussiste in quanto non è pertinente il termine di comparazione utilizzato, atteso che l'art. 212, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002 stabilisce che, entro un mese dal passaggio in giudicato, o dalla definitività del provvedimento da cui sorge l'obbligo, l'ufficio per il recupero dei crediti debba dare inizio alla riscossione, mediante notifica dell'avviso di pagamento, solo per i crediti esigibili, categoria a cui non appartengono le pene pecuniarie estinte a seguito di concessione dell'indulto; che non corrisponde al quadro normativo vigente l'assunto del rimettente, secondo cui l'applicazione dell'indulto per una condanna a pena pecuniaria impedirebbe all'interessato di fruire del medesimo indulto in rapporto a una eventuale successiva condanna a pena detentiva, per altro reato commesso entro la data di operatività del provvedimento di clemenza; che, infatti, l'art. 174, secondo comma, cod. pen., in forza del quale, «nel concorso di più reati, l'indulto si applica una sola volta, dopo cumulate le pene, secondo le norme concernenti il concorso di reati», non determina che dell'indulto si può fruire per una sola condanna, ma solo che il beneficio non può essere applicato in misura superiore al massimo consentito, per cui, qualora il soggetto abbia commesso, entro la data di operatività del beneficio, una pluralità di reati, l'indulto si applica una sola volta sulla somma delle pene irrogate e non tante volte quante sono i reati commessi; operazione, questa, che potrebbe portare a condonare una pena complessivamente superiore al limite massimo stabilito; che, pertanto, l'interpretazione data dalla Corte di cassazione, con la sentenza n. 3628 del 2007, della disposizione combinata degli artt. 667, comma 4, e 672 cod. proc. pen. non determina alcuna menomazione per il beneficiando del diritto «di agire in giudizio per tutelare la propria posizione secondo le opportunità ritenute più convenienti», anche perché non spetta al condannato decidere a quali pene debba applicarsi il condono, ma deve il pubblico ministero, ai sensi dell'art. 663 cod. proc. pen., provvedere ad unificare le pene concorrenti, per poi applicare il beneficio nella misura massima concedibile, o al condannato richiedere, in fase esecutiva, il cumulo delle pene ai fini dell'applicabilità dell'indulto: e tale ultima considerazione consente di far ritenere insussistente anche la prospettata violazione dell'art. 27, terzo comma, Cost.; che neppure possono dirsi violati gli artt. 97, primo comma, e 101, primo comma, Cost., in quanto la rinuncia ad un'entrata, conseguente all'applicazione dell'indulto, deriva dalla legge, che il giudice si limita solo ad applicare; che, secondo quanto ha più volte deciso questa Corte, il principio del contraddittorio non impone che esso si esplichi con le medesime modalità in ogni tipo di procedimento e neppure sempre e necessariamente nella fase iniziale dello stesso, onde non sono in contrasto con l'art. 111, secondo comma, Cost. i modelli processuali a contraddittorio eventuale e differito: «i quali, cioè, in ossequio a criteri di economia processuale e di massima speditezza, adottino lo schema della decisione de plano seguita da una fase a contraddittorio pieno, attivata dalla parte che intenda insorgere rispetto al decisum» (tra le molte, sentenza n. 115 del 2001 e ordinanze n. 291 del 2005, n. 352, n. 172 e n. 8 del 2003); che, di conseguenza, anche la procedura de plano prevista dalle norme impugnate per l'applicazione dell'indulto è conforme al dettato costituzionale, proprio perché attribuisce alle parti, una volta conosciuto il provvedimento adottato d'ufficio, la facoltà di richiedere che la questione decisa sia nuovamente sottoposta, in contraddittorio e nelle forme previste dall'art. 666 cod. proc. pen., al vaglio del giudice dell'esecuzione; che, infine, neppure sussiste lesione del principio di terzietà del giudice, sia perché  in generale  esso non implica che il giudice non possa adottare d'ufficio senza richiesta di parte decisioni su singole questioni processuali (in questi termini, con riferimento al potere, previsto dall'art. 507 cod. proc. pen., di disporre anche d'ufficio l'assunzione di nuovi mezzi di prova, si vedano le sentenze n. 111 del 1993 e n. 241 del 1992); sia perché  nello specifico  il giudice dell'esecuzione agisce sempre in forza di poteri che gli sono propri e comunque sempre su sollecitazione esterna  così è stato anche nel giudizio a quo  per cui l'espressione d'ufficio, se correttamente intesa, indica che non è necessaria una formale istanza delle parti, ma è sufficiente una qualsiasi segnalazione anche proveniente dalla cancelleria o da organi esterni all'amministrazione della giustizia, per dare inizio alla procedura d'applicazione dell'indulto. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

Dispositivo

per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale della disposizione combinata degli artt. 667, comma 4, e 672 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, secondo comma, 24, primo comma, 27, terzo comma, 97, primo comma, 101, primo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Forlì con l'ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 luglio 2009. F.to: Francesco AMIRANTE, Presidente Giuseppe FRIGO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 30 luglio 2009. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA

Relatore: Giuseppe Frigo

Data deposito:

Tipologia: O

Presidente: AMIRANTE

Massime

Amnistia ed indulto - Applicazione da parte del giudice dell'esecuzione "senza formalità" - Interpretazione da parte della Corte di cassazione dell'espressione "senza formalità" nel senso della possibilità per il giudice di procedere "d'ufficio" - Denunciata violazione dei principi di ragionevolezza, del contraddittorio, del diritto di difesa, di buon andamento della pubblica amministrazione e della finalità rieducativa della pena, nonché del principio secondo cui la giustizia è amministrata in nome del popolo - Esclusione - Manifesta infondatezza della questione.

È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della disposizione combinata degli artt. 667, comma 4, e 672 cod. proc. pen., sollevata, in riferimento agli artt. artt. 3, secondo comma, 24, primo comma, 27, terzo comma, 97, primo comma, 101, primo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione, nella parte in cui - secondo l'interpretazione vincolante data dalla Corte di cassazione - prevede che "all'applicazione dell'amnistia e dell'indulto si possa procedere senza formalità, intesa tale espressione come d'ufficio". Invero, quanto all'asserita violazione del principio di ragionevolezza, secondo cui il potere ex officio del giudice dell'esecuzione di applicare l'indulto alle pene pecuniarie sarebbe in contraddizione col dovere tassativo ed esclusivo stabilito dal T.U. delle spese di giustizia di procedere comunque alla riscossione delle pene pecuniarie, va osservato che non è pertinente il termine di comparazione utilizzato dal rimettente, non rientrando le pene pecuniarie estinte a seguito di indulto tra i crediti esigibili per i quali è prevista la riscossione a norma dell'art. 212, comma 2, d.P.R. n. 115 del 2002. Inoltre, la possibilità per il giudice di applicare il beneficio ex officio , non determina alcuna menomazione per il beneficiando del diritto di agire in giudizio per tutelare la propria posizione secondo le opportunità ritenute più convenienti, con conseguente esclusione della violazione degli artt. 24, secondo comma e 27, terzo comma, Cost. Né sussistono le ulteriori asserite violazioni degli artt. 97, primo comma, e 101, primo comma, Cost., in quanto la rinuncia, da parte dello Stato ad una entrata, conseguente all'applicazione dell'indulto ad una pena pecuniaria, deriva dalla legge che il giudice si limita solo ad applicare. Né, poi, risulta violato il principio del contraddittorio, in quanto la possibilità di applicare ex officio il beneficio, rispondente a criteri di economia processuale e di massima speditezza, non preclude alle parti, una volta conosciuto il provvedimento adottato, di chiedere che la questione decisa sia nuovamente sottoposta in contraddittorio e con le forme previste dall'art. 666 cod. proc. pen. Va, esclusa, infine, la violazione del principio di terzietà del giudice perché tale organo agisce in virtù di poteri che gli sono propri e comunque su sollecitazione esterna.