Articolo 667 - CODICE PROCEDURA PENALE
Massime della Corte Costituzionale
Testo dell'articolo aggiornato secondo le disposizioni legislative vigenti.
Testo dell'articolo aggiornato secondo le disposizioni legislative vigenti.
Sono dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale - sollevate dal Tribunale di sorveglianza di Messina in riferimento agli artt. 3, 24, 27, 111 e 117, primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione all'art. 6 CEDU - del combinato disposto degli artt. 667, comma 4, e 678, comma 1- bis , cod. proc. pen., secondo cui il giudizio sulle richieste di riabilitazione del condannato e quello di valutazione sull'esito dell'affidamento in prova, anche in casi particolari, si svolgono obbligatoriamente nelle forme del rito camerale c.d. " de plano ", a contraddittorio eventuale e differito. La disciplina censurata - bilanciando l'esercizio del diritto di difesa e il principio della ragionevole durata di processi in cui non sono necessari, di regola, accertamenti complessi - è conforme ai parametri costituzionali e convenzionali in materia di giusto processo. Il procedimento è caratterizzato infatti dal "recupero" delle garanzie difensive e del contraddittorio nella fase eventuale di opposizione al provvedimento pronunciato senza formalità dal giudice, introdotta dalla parte che vi abbia interesse. ( Precedenti: S. 245/2020 - mass. 42678; S. 279/2019 - mass. 42714; S. 97/2015 - mass. 38391; O. 255/2009 - mass. 33876; O. 291/2005 - mass. 29653; O. 352/2003 - 28165; O. 8/2003 - 27504 ).
Sono costituzionalmente illegittimi, per violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., in riferimento all'art. 6, paragrafo 1, della CEDU, così come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, gli artt. 666, comma 3, 667, comma 4, e 676 cod. proc. pen., nella parte in cui non consentono che, su istanza degli interessati, il procedimento di opposizione contro l'ordinanza in materia di applicazione della confisca si svolga, davanti al giudice dell'esecuzione, nelle forme dell'udienza pubblica. La pubblicità del giudizio - specie di quello penale - rappresenta, infatti, un principio connaturato ad un ordinamento democratico, la cui limitazione può avvenire solo in presenza di particolari ragioni giustificative, purché obiettive e razionali, e, nel caso del dibattimento penale, collegate ad esigenze di tutela di beni a rilevanza costituzionale. In particolare, nel procedimento di opposizione contro l'ordinanza in materia di applicazione della confisca, non sono ravvisabili ragioni atte a giustificare una deroga generalizzata e assoluta al principio di pubblicità delle udienze, atteso che il procedimento medesimo è finalizzato all'applicazione di una misura distinta ed ulteriore rispetto a quelle adottate in sede cognitiva: misura che incide su un diritto, ossia quello di proprietà, munito di garanzia convenzionale ai sensi dell'art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla CEDU. - Sull'illegittimità costituzionale - per contrasto, nel primo caso, con l'art. 117, primo comma, Cost. e, negli altri due, con gli artt. 111, primo comma, e 117 della Costituzione - delle disposizioni regolative, rispettivamente, del procedimento per l'applicazione delle misure di prevenzione, del procedimento per l'applicazione delle misure di sicurezza, e del procedimento davanti al tribunale di sorveglianza, nella parte in cui non consentono che, su istanza degli interessati, le procedure stesse si svolgano nelle forme dell'udienza pubblica, v., ex plurimis , le citate sentenze nn. 97/2015, 135/2014 e 93/2010. - Sulla pubblicità del giudizio penale, nonché degli eventuali limiti, v., ex plurimis , le citate sentenze nn. 373/1992, 69/1991, 50/1989, 212/1986 e 12/1971. - Sull'assenza di necessità della forma dell'udienza pubblica del giudizio penale, relativamente al ricorso per Cassazione, v., ex plurimis , la citata sentenza n. 80/2011.
È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della disposizione combinata degli artt. 667, comma 4, e 672 cod. proc. pen., sollevata, in riferimento agli artt. artt. 3, secondo comma, 24, primo comma, 27, terzo comma, 97, primo comma, 101, primo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione, nella parte in cui - secondo l'interpretazione vincolante data dalla Corte di cassazione - prevede che "all'applicazione dell'amnistia e dell'indulto si possa procedere senza formalità, intesa tale espressione come d'ufficio". Invero, quanto all'asserita violazione del principio di ragionevolezza, secondo cui il potere ex officio del giudice dell'esecuzione di applicare l'indulto alle pene pecuniarie sarebbe in contraddizione col dovere tassativo ed esclusivo stabilito dal T.U. delle spese di giustizia di procedere comunque alla riscossione delle pene pecuniarie, va osservato che non è pertinente il termine di comparazione utilizzato dal rimettente, non rientrando le pene pecuniarie estinte a seguito di indulto tra i crediti esigibili per i quali è prevista la riscossione a norma dell'art. 212, comma 2, d.P.R. n. 115 del 2002. Inoltre, la possibilità per il giudice di applicare il beneficio ex officio , non determina alcuna menomazione per il beneficiando del diritto di agire in giudizio per tutelare la propria posizione secondo le opportunità ritenute più convenienti, con conseguente esclusione della violazione degli artt. 24, secondo comma e 27, terzo comma, Cost. Né sussistono le ulteriori asserite violazioni degli artt. 97, primo comma, e 101, primo comma, Cost., in quanto la rinuncia, da parte dello Stato ad una entrata, conseguente all'applicazione dell'indulto ad una pena pecuniaria, deriva dalla legge che il giudice si limita solo ad applicare. Né, poi, risulta violato il principio del contraddittorio, in quanto la possibilità di applicare ex officio il beneficio, rispondente a criteri di economia processuale e di massima speditezza, non preclude alle parti, una volta conosciuto il provvedimento adottato, di chiedere che la questione decisa sia nuovamente sottoposta in contraddittorio e con le forme previste dall'art. 666 cod. proc. pen. Va, esclusa, infine, la violazione del principio di terzietà del giudice perché tale organo agisce in virtù di poteri che gli sono propri e comunque su sollecitazione esterna.