Pronuncia 408/2001

Sentenza

Collegio

composta dai signori: Presidente: Cesare RUPERTO; Giudici: Massimo VARI; Riccardo CHIEPPA; Gustavo ZAGREBELSKY; Valerio ONIDA; Carlo MEZZANOTTE; Fernanda CONTRI; Guido NEPPI MODONA; Piero Alberto CAPOTOSTI; Franco BILE; Giovanni Maria FLICK.

Epigrafe

ha pronunciato la seguente nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 409, comma 2, del codice di procedura penale, e dell'art. 6, comma 3, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), promosso con ordinanza emessa il 15 giugno 2000 dal giudice per le indagini preliminari del tribunale di Venezia nel procedimento penale a carico di X.X. ed altri, iscritta al n. 601 del registro ordinanze 2000 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 44, 1ª serie speciale, dell'anno 2000. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; Udito nella camera di consiglio del 10 ottobre 2001 il giudice relatore Giovanni Maria Flick. Ritenuto che il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Venezia - chiamato a delibare una richiesta di archiviazione avanzata in un procedimento penale nel quale risultavano indagati alcuni cittadini extracomunitari, per la contravvenzione, tra l'altro, di cui all'art. 6, comma 3, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) - ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 409, comma 2, del codice di procedura penale in riferimento agli artt. 3, 76, 97, 101, 111 e 112 della Costituzione; in subordine, "dell'obbligo di applicazione dell'art. 409, comma 2, anche per i reati previsti dall'art. 550 cod. proc. pen. in quanto "non applicabile" (recte: in quanto "applicabile") ai sensi dell'art. 549 cod. proc. pen.", in riferimento agli artt. 3, 24, 76, 97, 101 e 111 della Costituzione e, inoltre, dello stesso art. 6, comma 3, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, in riferimento agli artt. 3, 27 e 97 della Costituzione; che, secondo quanto premette il giudice rimettente, la richiesta del pubblico ministero non risulterebbe nella specie condivisibile, sicché occorrerebbe procedere alla fissazione di un'apposita udienza in camera di consiglio ai sensi dell'art. 409, comma 2, cod. proc. pen. con la correlativa violazione di numerosi parametri costituzionali; che sarebbe violato, in primo luogo, l'art. 3 della Costituzione, sotto il profilo di una irragionevole disparità di trattamento rispetto alla disciplina assunta quale tertium comparationis poiché ritenuta "sostanzialmente eguale" della richiesta di proroga delle indagini preliminari avanzata dal pubblico ministero, ai sensi dell'art. 406 cod. proc. pen., in quanto, non prevedendo tale ultima disciplina l'obbligatoria fissazione di un'udienza in camera di consiglio, ma solo la notifica della richiesta alle parti interessate, con contestuale avviso della facoltà di presentare memorie, essa consentirebbe al giudice di provvedere "de plano e con ordinanza", sulla scorta di un semplice "contraddittorio cartolare"; che ulteriore profilo di illegittimità costituzionale viene ravvisato dal giudice a quo in relazione al principio della ragionevole durata del processo sancito dall'art. 111 Cost., per la dilatazione dei tempi del processo conseguente alla fissazione dell'udienza ex art. 409 cod. proc. pen; sotto tale profilo, risulterebbe altresì violato l'art. 97 Cost., in quanto il principio di buon andamento della pubblica amministrazione risulterebbe leso dalla "inutile lungaggine della procedura lamentata"; che, ulteriormente, l'art. 97 della Costituzione risulterebbe violato sotto il profilo della lesione al principio di imparzialità dell'amministrazione, poiché, nella pratica impossibilità di approfondire, con la fissazione di apposita udienza, tutte le richieste di archiviazione avanzate dall'organo della accusa, verrebbero ad essere privilegiati solo taluni procedimenti, ritenuti meritevoli di approfondimento per la loro "importanza", ad insindacabile giudizio del giudice; che da ciò discenderebbe altresì la violazione del principio della soggezione del giudice esclusivamente alla legge, di cui all'art. 101, secondo comma, della Costituzione, in quanto - in presenza di un'inerzia investigativa del pubblico ministero - il giudice obbedirebbe "alla convenienza o peggio ancora alla immotivata discrezionalità" nella trattazione, con udienza, solo di talune richieste di archiviazione: con conseguente lesione anche del principio dell'obbligatorio esercizio dell'azione penale, di cui all'art. 112 Cost., venendo comunque ad affermarsi la volontà del pubblico ministero di non esercitare l'azione penale; che, in via subordinata, il rimettente prospetta una ulteriore serie di censure di legittimità costituzionale, relative all'applicazione del meccanismo dell'archiviazione, proprio dell'art. 409 cod. proc. pen., anche ai reati per i quali l'azione penale è esercitata con citazione diretta a giudizio dinanzi al giudice monocratico (art. 550 cod. proc. pen.), in forza del richiamo operato dall'art. 549 cod. proc. pen., come novellato dalla legge 16 dicembre 1999, n. 479; che in particolare, a parere del rimettente, tale disciplina violerebbe l'art. 3 della Costituzione, risultando irragionevolmente parificate, quanto alla procedura di archiviazione, tipologie di reato molto diverse tra loro quanto ad intrinseca gravità ed a previsione edittale di pena; che sarebbe violato altresì il principio della generale azionabilità in giudizio per la tutela dei diritti, espresso nell'art. 24 Cost., risultando inevitabile - secondo il rimettente - una selezione di rilevanza tra procedimenti penali "secondo l'importanza" ad insindacabile discrezione del magistrato; che l'estensione del meccanismo dell'archiviazione anche ai reati "a citazione diretta", per l'impossibilità di fissazione dell'udienza camerale in tempi brevi, si rifletterebbe anche sulla "corretta gestione della stessa funzione giurisdizionale", implicando, conseguentemente, la violazione dei principi di buon andamento dell'amministrazione e di ragionevole durata del processo, sanciti dagli artt. 97 e 111 della Costituzione; che la stessa determinazione dei nuovi organici degli uffici giudiziari a seguito dell'istituzione del giudice unico di primo grado sarebbe peraltro avvenuta secondo il rimettente in assenza "di principi e criteri direttivi", e dunque in violazione dell'art. 76 Cost; che secondo il rimettente l'art. 6, comma 3, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 norma che punisce lo straniero il quale, a richiesta degli ufficiali ed agenti di pubblica sicurezza, non esibisce, senza giustificato motivo, il passaporto o altro documento di identificazione, ovvero il permesso o la carta di soggiorno si porrebbe in contrasto con gli articoli 27 e 97 della Costituzione, sotto il profilo della mancanza di effettività della sanzione comminata, la quale non verrebbe di fatto inflitta ai destinatari proprio perché irreperibili e comunque non identificabili e della conseguente vanificazione dell'attività spiegata dalle forze dell'ordine, dai magistrati e dal personale di cancelleria per pervenire alla contestazione del reato; che la norma censurata finirebbe anzi per costituire un incentivo alla violazione di un precetto penalmente sanzionato, in quanto lo straniero clandestino non avrebbe comunque interesse ad esibire un qualunque documento, dato che la sua espulsione dal territorio dello Stato diverrebbe possibile solo in esito all'identificazione personale; che sarebbe violato anche l'art. 3 della Costituzione sotto il profilo di una manifesta disparità di trattamento, in quanto le condotte di introduzione clandestina e di trattenimento nel territorio dello Stato in mancanza di permesso di soggiorno condotte preliminari e più gravi rispetto a quella sanzionata dalla norma censurata non risultano penalmente rilevanti; che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso per l'infondatezza della questione, evidenziando: in via generale, che la questione proposta comporterebbe esiti di tipo creativo, implicanti cioè "opzioni di tipo legislativo"; e, con riferimento specifico alla pretesa violazione dell'art. 3 della Costituzione, la disomogeneità delle situazioni poste a confronto, risultando i meccanismi dell'archiviazione ex art. 409 cod. proc. pen. e dell'autorizzazione a continuare le indagini di cui all'art. 406 cod. proc. pen., diversi per presupposti e finalità. Considerato che il giudice rimettente, nel dubitare della legittimità costituzionale dell'art. 409, comma 2, cod. proc. pen. in riferimento ai vari parametri costituzionali evocati, fonda i propri dubbi sull'assunto generale della superfluità della fissazione di un'apposita udienza in camera di consiglio, prevista dalla norma impugnata nell'ipotesi in cui il giudice dissenta dalla richiesta di archiviazione, la quale, anche in rapporto ai conseguenti avvisi ed adempimenti, si risolverebbe in intollerabile aggravio nell'organizzazione degli uffici giudiziari ed in fattore di dilatazione dei tempi di definizione dei procedimenti; che tale premessa fondante appare, tuttavia, centrata più che su di una intrinseca incompatibilità costituzionale del dispositivo processuale censurato, sulle conseguenze di mero fatto che esso è in grado di generare, sul piano dell'organizzazione del lavoro; che, in tale ottica, si rivelano manifestamente insussistenti le dedotte violazioni: sia dell'art. 97 della Costituzione, poiché il principio di buon andamento della pubblica amministrazione, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (v. ordinanze n. 204 del 2001 e n. 490 del 2000), pur essendo riferibile anche agli organi dell'amministrazione della giustizia, attiene esclusivamente alle leggi concernenti l'ordinamento degli uffici giudiziari ed il loro funzionamento sotto l'aspetto amministrativo, mentre è del tutto estraneo all'esercizio della funzione giurisdizionale; sia dell'art. 101 Cost., poiché il meccanismo procedurale conseguente al mancato accoglimento della richiesta di archiviazione non implica, in sé, alcuna elusione del principio di soggezione del giudice solo alla legge, risultandone, anzi, piena espressione; sia, infine, dell'art. 111 della Costituzione, poiché la pretesa violazione del principio della ragionevole durata del processo appare dedotta non quale conseguenza astratta e generale della normativa impugnata, ma in quanto derivante dalla peculiare situazione dell'ufficio giudiziario all'interno del quale il rimettente è chiamato ad operare; che priva di consistenza è, altresì, la denuncia di violazione dell'art. 3 Cost., stante non solo la palese eterogeneità dei due moduli posti a confronto, ma anche e soprattutto la mancanza di quelle "divergenze" sulle quali il rimettente fonda le proprie doglianze; che, quanto al primo aspetto, basta infatti osservare che, mentre nella procedura della proroga delle indagini preliminari la verifica del giudice, concentrandosi sul tema della durata delle indagini, è limitata ad un riscontro di legittimità dei presupposti per autorizzare la proroga stessa; nel procedimento di archiviazione il giudice, attraverso l'esame di profili di merito, è invece chiamato ad una declaratoria che, previo controllo della richiesta dell'accusa, chiude la fase delle indagini e lo stesso procedimento, "evitando il processo superfluo senza eludere il principio di obbligatorietà" (v. sentenza n. 88 del 1991); che, quanto al secondo profilo, va rilevato che nel caso in cui il giudice ritenga, allo stato degli atti, di non poter concedere la proroga richiesta, il modello evocato quale tertium diviene, in parte qua perfettamente sovrapponibile a quello oggetto della censura, posto che per essa sono ugualmente previsti la fissazione dell'udienza camerale e gli adempimenti degli avvisi a norma dell'art. 406, comma 5, cod. proc. pen.; che, in merito alla violazione dell'art. 3 della Costituzione conseguente all'applicazione del "modello" delineato dall'art. 409 cod. proc. pen. - in forza del generale rinvio operato dall'art. 549 - anche per i reati per i quali è previsto, a norma dell'art. 550 dello stesso codice, che il pubblico ministero eserciti l'azione mediante citazione diretta a giudizio, va evidenziato che - nell'assenza di un vincolo, per il legislatore, a differenziare il meccanismo di archiviazione in rapporto alla maggiore o minore gravità dei reati presi in considerazione e trattandosi, all'evidenza, di scelte ampiamente discrezionali - non può in alcun modo ritenersi superata la soglia della ragionevolezza intrinseca del sistema censurato, che assicura un adeguato spazio al contraddittorio camerale; che privo di pertinente motivazione sulla rilevanza, quanto alla questione di specie, appare il riferimento alla violazione dell'art. 76 Cost., non certamente riferibile alla norma di cui all'art. 409 cod. proc. pen.; che in ordine all'art. 6, comma 3, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, il rimettente prospetta censure del tutto analoghe a quelle già scrutinate da questa Corte con la ordinanza n. 68 del 2001, poiché anche esse si risolvono "in una critica alla complessiva disciplina della materia, con valutazioni che investono il piano delle scelte politiche del legislatore e che sono volte a segnalare, in particolare, difficoltà di esecuzione della pena inflitta" con riferimento alla disposizione denunziata; che, tuttavia, "la configurazione delle fattispecie criminose e la valutazione delle conseguenze penali appartengono alla politica legislativa e, quindi, all'incensurabile discrezionalità del legislatore, con l'unico limite della manifesta irragionevolezza" (ordinanze n. 68 del 2001, n. 207 del 1999, n. 297 del 1998), e le censure prospettate non sono tali da far risaltare, con riferimento alla norma impugnata, una irragionevolezza delle opzioni del legislatore: con conseguente esclusione della violazione dei parametri invocati; che, pertanto, la questione va dichiarata manifestamente infondata. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

Dispositivo

per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE Dichiara: 1) la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 409, comma 2, del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 76, 97, 101, 111 e 112 della Costituzione, dal giudice per le indagini preliminari del tribunale di Venezia con l'ordinanza in epigrafe; 2) la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 3, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 27 e 97 della Costituzione, con la medesima ordinanza. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 dicembre 2001. Il Presidente: Ruperto Il redattore: Flick Il cancelliere: Di Paola Depositata in cancelleria il 14 dicembre 2001. Il direttore della cancelleria: Di Paola

Relatore: Giovanni Maria Flick

Data deposito: Fri Dec 14 2001 00:00:00 GMT+0000 (Coordinated Universal Time)

Tipologia: O

Presidente: RUPERTO

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Massime

Processo penale - Indagini preliminari - Archiviazione - Mancato accoglimento della richiesta di archiviazione del pubblico ministero - Fissazione di apposita udienza in camera di consiglio - Prospettata violazione dei principî di buon andamento, di soggezione del giudice solo alla legge, della ragionevole durata del processo, nonché disparità di trattamento rispetto alla procedura della proroga delle indagini preliminari e irragionevole equiparazione di tipologie di reati diverse tra loro - Manifesta infondatezza delle questioni.

Manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 409, comma 2, del cod. proc. pen., sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 76, 97, 101, 111 e 112 della Costituzione, fondando i dubbi di costituzionalità sull’assunto generale della superfluità della prevista fissazione di un’apposita udienza in camera di consiglio nell’ipotesi in cui il giudice dissenta dalla richiesta di archiviazione, con conseguente, intollerabile aggravio nell’organizzazione degli uffici giudiziari e dilatazione dei tempi di definizione dei procedimenti. Tale premessa, appare tuttavia centrata sulle conseguenze di mero fatto che la norma è in grado di generare sul piano dell’organizzazione del lavoro, cosicché, in relazione ad esse si rivelano manifestamente insussistenti le violazioni dell’art. 97, Cost., in quanto il principio di buon andamento della pubblica amministrazione è del tutto estraneo all’esercizio della funzione giurisdizionale; dell’art. 101, Cost., in quanto il principio di soggezione del giudice solo alla legge non è eluso, bensì pienamente espresso dal meccanismo procedurale di cui trattasi; dell’art. 111, Cost., perché il principio della ragionevole durata del processo appare dedotto in dipendenza della peculiare situazione dell’ufficio giudiziario all’interno del quale il rimettente è chiamato ad operare. Priva di consistenza è, altresì, la denuncia di violazione dell’art. 3 Cost., in relazione alla disciplina, assunta quale 'tertium comparationis', della richiesta di proroga delle indagini preliminari avanzate dal pubblico ministero, di cui all’art. 406, stesso codice, stante non solo la palese eterogeneità dei due moduli posti a confronto, ma anche e soprattutto la mancanza di quelle “divergenze” sulle quali il rimettente fonda le proprie doglianze. Quest’ultimo parametro non è violato neanche sotto il profilo della lamentata, mancata differenziazione del meccanismo di archiviazione in rapporto alla maggiore o minore gravità dei reati, ed in particolare di quelli di cui all’art. 550, nei quali il pubblico ministero esercita l’azione mediante citazione a giudizio, dal momento che, non sussistendo alcun vincolo in tal senso per il legislatore, non può in alcun modo ritenersi superata la soglia della ragionevolezza intrinseca del sistema censurato, che assicura un adeguato spazio al contraddittorio camerale. Infine, risulta privo di pertinente motivazione sulla rilevanza, il riferimento alla violazione dell’art. 76 Cost. - V. ordinanze nn. 204/2001 e 490/2000. A.M.M.

Reati e pene - Straniero - Punibilità dello straniero, in caso di mancata esibizione, a richiesta di ufficiali e agenti di pubblica sicurezza, del passaporto o di altro documento di identificazione - Prospettata mancanza di effettività della sanzione - Manifesta infondatezza della questione.

Manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata, in riferimento agli artt. 3, 27 e 97 della Costituzione, dell’art. 6, comma 3, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, il quale prevede la punibilità dello straniero che, a richiesta degli ufficiali ed agenti di pubblica sicurezza, non esibisce senza giustificato motivo, il passaporto o la carta di soggiorno. Le censure prospettate dal giudice rimettente, del tutto analoghe a quelle già scrutinate con precedente decisione, non sono infatti tali da far risaltare, con riferimento alla norma impugnata, una irragionevolezza delle opzioni del legislatore, con conseguente esclusione della violazione dei parametri invocati. - V. ordinanze n. 68/2001, n. 207/1999 e n. 297/1998. A.M.M.

Norme citate

  • decreto legislativo-Art. 6, comma 3