Articolo 112 - COSTITUZIONE
Massime della Corte Costituzionale
Testo dell'articolo aggiornato secondo le disposizioni legislative vigenti.
L'obbligatorietà dell'esercizio dell'azione penale ad opera del pubblico ministero è elemento che concorre a garantire, da un lato, l'indipendenza dell'organo della pubblica accusa nell'esercizio della propria funzione e, dall'altro, l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale. ( Precedente: S. 84/1979 - mass. 9927 ). Il principio di legalità (art. 25, secondo comma, Cost.), che rende doverosa la repressione delle condotte violatrici della legge penale, abbisogna, per la sua concretizzazione, della legalità nel procedere; e questa, in un sistema fondato sul principio di eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge (in particolare, alla legge penale), non può essere salvaguardata che attraverso l'obbligatorietà dell'azione penale. ( Precedente: S. 88/1991 - mass. 16995 ). Il principio di obbligatorietà dell'azione penale è connesso tanto al principio di eguaglianza quanto a quello di legalità in materia penale, essendo funzionale alla garanzia di un'uniforme e imparziale applicazione della legge penale a tutti i suoi destinatari.
Sono dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale - sollevate dal GUP del Tribunale di Palermo in riferimento agli artt. 3 e 112 Cost. - dell'art. 521, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che il giudice disponga con ordinanza la trasmissione degli atti al PM quando accerta che risulta una circostanza aggravante non oggetto di contestazione. La disposizione censurata, nel prevedere la restituzione degli atti per il fatto diverso e non anche per l'aggravante non contestata, individua un punto di equilibrio non implausibile tra gli opposti interessi e principi sottesi al processo penale e non può essere qualificata in termini di manifesta irragionevolezza o arbitrarietà. La scelta del legislatore è stata, infatti, quella di limitare la regressione del procedimento alla sola ipotesi (il fatto diverso) in cui la definizione del giudizio con una sentenza assolutoria determinerebbe la totale impunità dell'autore del fatto, privilegiando invece le esigenze di tutela della ragionevole durata del processo e della terzietà e imparzialità del giudice nel caso in cui l'errore del PM si ripercuota soltanto sulla misura della pena. La disciplina in esame realizza inoltre un bilanciamento non irragionevole tra il principio di obbligatorietà dell'azione penale, che non può comunque essere esteso sino al punto di negare qualsiasi spazio valutativo al PM nella configurazione dell'imputazione (tanto più quando, come nella specie, venga in rilievo l'aggravante della recidiva), il diritto di difesa dell'imputato e lo stesso ruolo del giudice, chiamato a verificare la corrispondenza dei fatti provati a quelli ascritti all'imputato dal PM, e non già ad assicurare, in chiave collaborativa con quest'ultimo, l'adeguamento dell'imputazione ai fatti provati. Precedenti: S. 74/2022 - mass. 44756; O. 145/18 - mass. 40185; S. 120/2017 - mass. 40168; S. 88/1994 - mass. 20478 ).
Il potere di impugnazione nel merito della sentenza di primo grado da parte del pubblico ministero presenta margini di "cedevolezza" più ampi rispetto al simmetrico potere dell'imputato, in quanto il potere di impugnazione della parte pubblica non può essere configurato come proiezione necessaria del principio dell'obbligatorietà dell'azione penale, enunciato dall'art. 112 Cost., mentre, sull'altro fronte, il potere dell'imputato si correla anche al fondamentale valore espresso dal diritto di difesa, che ne accresce la forza di resistenza al cospetto di sollecitazioni di segno inverso. ( Precedenti citati: sentenze n. 183 del 2017, n. 274 del 2009, n. 242 del 2009, n. 298 del 2008, n. 26 del 2007, n. 280 del 1995 e n. 98 del 1994; ordinanze n. 165 del 2003 e n. 347 del 2002 ). La garanzia del doppio grado di giurisdizione non fruisce, di per sé, di riconoscimento costituzionale. ( Precedenti citati: sentenze n. 274 del 2009, n. 242 del 2009, n. 298 del 2008, n. 26 del 2007, n. 288 del 1997 e n. 280 del 1995; ordinanze n. 316 del 2002 e n. 421 del 2001 ).
È dichiarata la manifesta inammissibilità, per aberratio ictus e difetto di rilevanza, delle questioni di legittimità costituzionale - sollevate dal GIP del Tribunale di Nuoro in riferimento agli artt. 3, 111, secondo comma, e 112 Cost. - degli artt. 410- bis e 411, comma 1- bis , cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedono l'iscrizione nel casellario giudiziale della ordinanza di archiviazione per particolare tenuità del fatto, e, in via subordinata, dell'art. 411, comma 1- bis , cod. proc. pen., per contrasto con l'art. 3 Cost., nella parte in cui non prevedono l'impugnabilità dell'ordinanza di archiviazione. Il rimettente, anziché formulare questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 1, lett. f ), del t.u. casellario giudiziale, nella parte in cui non prevede l'obbligo di iscrizione dei provvedimenti in questione, censura i predetti articoli del cod. proc. pen., che - tuttavia - nulla dispongono in merito all'iscrizione del provvedimento di archiviazione nel casellario giudiziale. Le ulteriori questioni concernenti la omessa previsione dell'impugnabilità dell'ordinanza di archiviazione sono manifestamente irrilevanti, posto che il giudice a quo deve unicamente decidere sulla richiesta di archiviazione formulata dal pubblico ministero, sicché dette questioni risultano meramente prospettiche ed eventuali.
È ordinata la restituzione degli atti al GIP del Tribunale di Taranto per un nuovo esame, alla luce del mutato quadro normativo, della rilevanza e della non manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 5, del d.l. n. 1 del 2015, conv. con modif., come modificato dall'art. 1, comma 7, del d.l. n. 191 del 2015, conv. con modif., come successivamente modificato dall'art. 1, comma 4, lett. a ), del d.l. n. 98 del 2016, conv. con modif., e dall'art. 6, comma 10- bis , lett. a ) e c ), del d.l. n. 244 del 2016, conv. con modif., in relazione all'art. 3, comma 3, del d.l. n. 207 del 2012, conv. con modif.; e dell'art. 2, comma 6, del medesimo d.l. n. 1 del 2015, conv. con modif., nel testo in vigore dopo le modifiche operate dal d.l. n. 98 del 2016, conv. con modif., e dal d.l. n. 244 del 2016, conv. con modif., censurati - in riferimento agli artt. 3, 24, 32, 35, 41, 112 e 117, primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione agli artt. 2, 8 e 13 della CEDU - perché, rispettivamente, consentono la prosecuzione dell'attività produttiva di ILVA in costanza di sequestro penale, nelle more dell'attuazione del piano delle misure e delle attività di tutela ambientale e sanitaria e prevedono una speciale causa di non punibilità delle condotte attuative del piano, poste in essere dal commissario straordinario, dall'affittuario o acquirente e dai soggetti da questi funzionalmente delegati. Successivamente all'ordinanza di rimessione, l'art. 2, comma 6, del d.l. n. 1 del 2015, è stato modificato dapprima dall'art. 46 del d.l. n. 34 del 2019, conv. con modif., e, in seguito, dall'art. 14 del d.l. n. 101 del 2019, poi soppresso in sede di conversione. Le indicate vicende normative sopravvenute potrebbero condizionare l'applicabilità delle norme censurate nel procedimento a quo, sulla base dei principi in materia di applicazione della legge penale nel tempo, anche in relazione all'affermazione del carattere permanente di taluni reati ipotizzati a carico delle persone sottoposte a indagine contenuta nell'ordinanza di rimessione. Secondo la costante giurisprudenza costituzionale, a fronte dell'evoluzione del quadro normativo, non può spettare che al rimettente valutare in concreto l'incidenza delle sopravvenute modifiche legislative sia in ordine alla rilevanza, sia in riferimento alla non manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate. ( Precedenti citati: ordinanze n. 182 del 2019, n. 154 del 2018, n. 258 del 2016, n. 102 del 2015, n. 80 del 2015, n. 53 del 2015 e n. 75 del 2014 ).
È confermata l'ammissibilità, ai sensi dell'art. 37 della legge n. 87 del 1953, del ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato promosso nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bari, in relazione all'art. 18, comma 5, del d.lgs. n. 177 del 2016, che impone agli ufficiali di polizia giudiziaria, a seguito di apposite istruzioni, la trasmissione per via gerarchica delle "notizie relative all'inoltro delle informative di reato all'autorità giudiziaria, indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale". Sussistono i requisiti soggettivo e oggettivo per l'instaurazione del giudizio in quanto, sotto il primo profilo, deve essere ribadita la natura di potere dello Stato al pubblico ministero, e in particolare al Procuratore della Repubblica (art. 1, comma 1, del d.lgs. n. 106 del 2006), in quanto titolare delle attività d'indagine (art. 109 Cost.) finalizzate all'esercizio obbligatorio dell'azione penale (art. 112 Cost.); e al Governo, rappresentato dal Presidente del Consiglio dei ministri, posto che l'atto asseritamente lesivo è imputabile al Governo nella sua interezza. Sotto il secondo profilo, va confermato che sussiste l'idoneità di un atto avente natura legislativa a determinare conflitto tutte le volte in cui dalla norma primaria derivino in via diretta lesioni dell'ordine costituzionale delle competenze, salvo che sia configurabile un giudizio nel quale la norma primaria risulti applicabile e quindi possa essere su di essa sollevata, in via incidentale, questione di legittimità costituzionale. ( Precedenti citati: sentenze n. 1 del 2013, n. 88 del 2012, n. 87 del 2012 e n. 420 del 1995; ordinanza 273 del 2017, n. 17 del 2013, n. 16 del 2013, n. 521 del 2000, n. 23 del 2000 e n. 323 del 1999 ).
È inammissibile, in riferimento all'art. 76 Cost., il ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato promosso nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bari, in relazione all'art. 18, comma 5, del d.lgs. n. 177 del 2016, che impone agli ufficiali di polizia giudiziaria, a seguito di apposite istruzioni, la trasmissione per via gerarchica delle "notizie relative all'inoltro delle informative di reato all'autorità giudiziaria, indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale". Benché il ricorrente non ragiona esplicitamente di una "ridondanza" dell'asserita violazione dei principi e dei criteri direttivi della delega sulle proprie attribuzioni costituzionali di cui agli artt. 109 e 112 Cost., anche a voler ritenere che tale asserzione sia implicita, la lamentata incisione sulle sue attribuzioni deriverebbe non già dall'eventuale eccesso di delega imputabile alla norma impugnata, bensì, in via diretta e immediata, dalla violazione dei parametri costituzionali pertinenti alle attribuzioni del pubblico ministero. Quand'anche conseguente ad un intervento che un potere dello Stato abbia compiuto in asserita carenza di potere (per avere adottato una disposizione di decreto legislativo reputata in eccesso di delega), il pregiudizio lamentato resta arrecato alla sola sfera di attribuzioni direttamente e specificamente riconosciuta dalla Costituzione al ricorrente, per cui il rimedio del conflitto è dato solo per la tutela di tali attribuzioni, alla luce dei parametri costituzionali che delimitano, tra i poteri in conflitto, il perimetro delle rispettive competenze. ( Precedenti citati: sentenze n. 221 del 2002, n. 139 del 2001 e n. 457 del 1999 ). In linea di principio, l'organo ricorrente per conflitto di attribuzione deve lamentare una diretta lesione delle sfere di competenze che la Costituzione gli riconosce, e tale esigenza è, se possibile, ancor più stringente laddove il conflitto tra poteri dello Stato abbia ad oggetto un atto avente valore legislativo, ed ancor più evidente proprio in riferimento all'art. 76 Cost., in virtù della natura logicamente preliminare dello scrutinio che lo assume a parametro, che involge il corretto esercizio della funzione legislativa. In assenza di tale limitazione, il significato del ricorso al rimedio del conflitto tra poteri potrebbe risultarne alterato in misura significativa, fino a trasformarsi in un controllo di conformità di una disposizione legislativa alla luce di qualunque parametro costituzionale, controllo che investirebbe il potere dello Stato ricorrente di una inesistente funzione di vigilanza costituzionale e del compito di sollecitare a questo scopo l'intervento della Corte costituzionale. ( Precedenti citati: sentenze n. 51 del 2017 e n. 250 del 2016 ).
È dichiarato che non spettava al Governo della Repubblica adottare l'art. 18, comma 5, del d.lgs. n. 177 del 2016, nella parte in cui prevede che "[e]ntro il medesimo termine, al fine di rafforzare gli interventi di razionalizzazione volti ad evitare duplicazioni e sovrapposizioni, anche mediante un efficace e omogeneo coordinamento informativo, il capo della polizia-direttore generale della pubblica sicurezza e i vertici delle altre Forze di polizia adottano apposite istruzioni attraverso cui i responsabili di ciascun presidio di polizia interessato trasmettono alla propria scala gerarchica le notizie relative all'inoltro delle informative di reato all'autorità giudiziaria, indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale", e conseguentemente tale disposizione è annullata nella parte indicata. L'equiparazione di grado tra la fonte in tema di segreto investigativo di cui all'art. 329 cod. proc. pen. e quella impugnata - la cui formulazione nella sostanza riprende l'originaria disposizione, di rango solo regolamentare, contenuta nell'art. 237, comma 1, del d.P.R. n. 90 del 2010, relativo unicamente ai comandi dell'Arma dei carabinieri - le pone in posizione potenzialmente antagonista, non escludendo, in principio, la conseguenza che il coordinamento informativo a finalità organizzative trasmodi in una forma di coordinamento investigativo alternativa a quello affidato al pubblico ministero, trattandosi invece di funzioni diverse, che la legislazione ordinaria non può confondere o sovrapporre, a prezzo di violare il sistema costituzionale. Le ambiguità testuali disseminate, sotto vari profili, nella disposizione impugnata, infatti, non escludono che gli obblighi d'informazione nei confronti dei superiori gerarchici, alla luce dell'autorizzata deroga al rispetto degli obblighi previsti dal codice di procedura penale a tutela del segreto investigativo, finiscano invece per concentrare presso soggetti posti ai vertici delle Forze di polizia una notevole quantità di dati e informazioni di significato investigativo, ultronei rispetto alle necessità di coordinamento e di organizzazione, ledendo la sfera di attribuzioni costituzionali del ricorrente delineata dall'art. 109 Cost. Nell'attuale sistema del codice di rito, il segreto investigativo è un segreto "specifico", cioè relativo a singoli atti d'indagine, non perpetuo ma, normalmente, limitato nel tempo, strumentale al più efficace esercizio dell'azione penale, al fine di scongiurare ogni possibile pregiudizio alle indagini, innanzitutto a causa di un'anticipata conoscenza delle stesse da parte della persona indagata. Se esso non riceve, in assoluto, "copertura" nell'art. 112 Cost., ben potendo subire limitazioni od attenuazioni a tutela di altri interessi di rilievo costituzionale, nello stesso sistema del codice di rito resta fermo che ogni deroga avviene previo vaglio della stessa autorità giudiziaria competente, che ben può rigettare, motivandone le ragioni, una richiesta di atti e informazioni. (Precedenti citati: sentenze n. 420 del 1995 e n. 59 del 1995 ). L'art. 109 Cost., prevedendo che l'autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria, ha il preciso e univoco significato di istituire un rapporto di dipendenza funzionale della seconda nei confronti della prima, escludendo interferenze di altri poteri nella conduzione delle indagini, in modo che la direzione di queste ultime ne risulti effettivamente riservata all'autonoma iniziativa e determinazione dell'autorità giudiziaria medesima. Tale rapporto di subordinazione funzionale, se non collide con l'organico rapporto di dipendenza burocratica e disciplinare della polizia giudiziaria nei confronti del potere esecutivo (secondo la logica della duplice soggezione, che lo stesso art. 109 Cost. delinea), non ammette invece che si sviluppino, foss'anche per legittime esigenze informative ed organizzative, forme di coordinamento investigativo alternative a quello condotto dal pubblico ministero competente. ( Precedenti citati: sentenze n. 394 del 1998, n. 114 del 1968 e n. 94 del 1963 ).
Accolto - per violazione dell'art. 109 Cost. - il ricorso per conflitto tra poteri dello Stato promosso nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bari, in relazione all'art. 18, comma 5, del d.lgs. n. 177 del 2016, resta assorbita l'altra censura dedotta in riferimento all'art. 112 Cost.
È dichiarato ammissibile, ai sensi dell'art. 37 della legge n. 87 del 1953, il ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, proposto dal Procuratore della Repubblica e dal Procuratore aggiunto presso il Tribunale di Torino, affinché sia dichiarato che non spettava alla Commissione bicamerale sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti e su illeciti ambientali ad esse correlati, istituita con la legge n. 1 del 2014, confermare il segreto sul verbale contenente l'audizione dell'ingegnere Daniele Fortini del 2 agosto 2016, nonché rigettare la richiesta di desecretazione avanzata dalla Procura di Torino, e, per l'effetto, chiedendo altresì di annullare la deliberazione del 3 maggio 2017, che ha mantenuto la secretazione del resoconto stenografico della seduta del 2 agosto 2016, e consentire quindi la prosecuzione dell'attività dell'autorità giudiziaria. Sussistono i requisiti soggettivo e oggettivo per l'instaurazione del giudizio, in quanto sotto il primo profilo deve essere riconosciuta la natura di potere dello Stato al pubblico ministero e la legittimazione a resistere della Commissione parlamentare di inchiesta; sotto il secondo profilo, il ricorso è indirizzato alla tutela della sfera di attribuzioni determinata da norme costituzionali, in quanto la lesione lamentata concerne l'attribuzione, costituzionalmente garantita al pubblico ministero, inerente all'esercizio obbligatorio dell'azione penale ed alla connessa titolarità circa lo svolgimento delle attività di indagine, funzionale alle scelte sull'esercizio dell'azione penale. Per costante giurisprudenza costituzionale, deve essere riconosciuta la natura di potere dello Stato al pubblico ministero e, in particolare, al Procuratore della Repubblica, in quanto titolare delle attività di indagine finalizzate all'esercizio obbligatorio dell'azione penale. ( Precedenti citati: ordinanze n. 273 del 2017, n. 217 del 2016, n. 17 del 2013 ). A norma dell'art. 82 Cost., la potestà riconosciuta alle Camere di disporre inchieste su materie di pubblico interesse non è esercitabile altrimenti che attraverso la interposizione di Commissioni a ciò destinate, le quali, nell'espletamento e per la durata del loro mandato, sostituiscono ope constitutionis lo stesso Parlamento, dichiarandone perciò e definitivamente la volontà ai sensi del primo comma dell'art. 37 della legge n. 87 de 1953. ( Precedenti citati: sentenza n. 231 del 1975; ordinanze n. 73 del 2006 e n. 228 del 1975 ). Ove la Commissione parlamentare bicamerale d'inchiesta, i cui atti sono oggetto di ricorso per conflitto di poteri, sia cessata ex lege dalle proprie funzioni con la fine della Legislatura, la legittimazione a resistere nel conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato proposto nei suoi confronti va trasferita al Senato della Repubblica e alla Camera dei deputati, in persona dei rispettivi Presidenti p.t., ai quali vanno pertanto notificati il ricorso e l'ordinanza che ne dichiara l'ammissibilità.