Articolo 521 - CODICE PROCEDURA PENALE
Massime della Corte Costituzionale
Testo dell'articolo aggiornato secondo le disposizioni legislative vigenti.
Testo dell'articolo aggiornato secondo le disposizioni legislative vigenti.
Sono dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale - sollevate dal GUP del Tribunale di Palermo in riferimento agli artt. 3 e 112 Cost. - dell'art. 521, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che il giudice disponga con ordinanza la trasmissione degli atti al PM quando accerta che risulta una circostanza aggravante non oggetto di contestazione. La disposizione censurata, nel prevedere la restituzione degli atti per il fatto diverso e non anche per l'aggravante non contestata, individua un punto di equilibrio non implausibile tra gli opposti interessi e principi sottesi al processo penale e non può essere qualificata in termini di manifesta irragionevolezza o arbitrarietà. La scelta del legislatore è stata, infatti, quella di limitare la regressione del procedimento alla sola ipotesi (il fatto diverso) in cui la definizione del giudizio con una sentenza assolutoria determinerebbe la totale impunità dell'autore del fatto, privilegiando invece le esigenze di tutela della ragionevole durata del processo e della terzietà e imparzialità del giudice nel caso in cui l'errore del PM si ripercuota soltanto sulla misura della pena. La disciplina in esame realizza inoltre un bilanciamento non irragionevole tra il principio di obbligatorietà dell'azione penale, che non può comunque essere esteso sino al punto di negare qualsiasi spazio valutativo al PM nella configurazione dell'imputazione (tanto più quando, come nella specie, venga in rilievo l'aggravante della recidiva), il diritto di difesa dell'imputato e lo stesso ruolo del giudice, chiamato a verificare la corrispondenza dei fatti provati a quelli ascritti all'imputato dal PM, e non già ad assicurare, in chiave collaborativa con quest'ultimo, l'adeguamento dell'imputazione ai fatti provati. Precedenti: S. 74/2022 - mass. 44756; O. 145/18 - mass. 40185; S. 120/2017 - mass. 40168; S. 88/1994 - mass. 20478 ).
Sono dichiarate inammissibili, per lacuna motivazionale sulla rilevanza, le questioni di legittimità costituzionale - sollevate dal Tribunale di Torre Annunziata in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost. - dell'art. 521 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede la facoltà dell'imputato, allorquando sia invitato dal giudice del dibattimento ad instaurare il contraddittorio sulla riqualificazione giuridica del fatto, di richiedere a quest'ultimo il giudizio abbreviato in relazione al fatto diversamente qualificato. Il rimettente non motiva adeguatamente l'applicabilità della disposizione censurata nel giudizio a quo poiché, nel procedere alla riqualificazione giuridica dei fatti accertati in giudizio, omette di confrontarsi con il canone ermeneutico rappresentato, in materia di diritto penale, dal divieto di analogia a sfavore del reo, fondato a livello costituzionale sul principio di legalità di cui all'art. 25, secondo comma, Cost. ( nullum crimen, nulla poena sine lege stricta ). ( Precedenti citati: sentenze n. 57 del 2021, n. 115 del 2018, n. 230 del 2012, n. 327 del 2008, n. 394 del 2006, n. 5 del 2004, n. 447 del 1998, n. 487 del 1989 e n. 96 del 1981 ). Il divieto di applicazione analogica delle norme incriminatrici da parte del giudice costituisce il naturale completamento di altri corollari del principio di legalità in materia penale sancito dall'art. 25, secondo comma, Cost., e in particolare della riserva di legge e del principio di determinatezza della legge penale: corollari posti a tutela sia del principio "ordinamentale" della separazione dei poteri, e della conseguente attribuzione al solo legislatore del compito di tracciare i confini tra condotte penalmente rilevanti e irrilevanti, nonché - evidentemente - tra le diverse figure di reato; sia della garanzia "soggettiva", riconosciuta ad ogni consociato, della prevedibilità delle conseguenze sanzionatorie delle proprie condotte, a tutela delle sue libere scelte d'azione. ( Precedenti citati: sentenze n. 121 del 2018, n. 34 del 1995, n. 364 del 1988 e n. 96 del 1981; ordinanza n. 24 del 2017 ).
Non è accolta l'eccezione di inammissibilità, per insufficiente motivazione sulla rilevanza, nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 464-bis, comma 2, e 521, comma 1, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedono la possibilità di disporre la sospensione del procedimento con messa alla prova ove, in esito al giudizio, il fatto di reato venga, su sollecitazione del medesimo imputato, diversamente qualificato dal giudice così da rientrare in uno di quelli contemplati dal primo comma dell'art. 168-bis cod. pen. Dal mero confronto tra il capo di imputazione e la pur sintetica descrizione, contenuta nell'ordinanza di rimessione, delle risultanze istruttorie, non emerge infatti alcuna diversità tra i fatti storici descritti nel decreto che dispone il giudizio, e quelli che l'imputato - sulla base degli atti di indagine - risulta effettivamente avere commesso; bensì - esclusivamente - una diversità nella qualificazione giuridica da parte del giudice rispetto a quella originariamente ipotizzata dal pubblico ministero, disciplinata - come esattamente ritenuto dal giudice a quo - dal censurato art. 521, comma 1, cod. proc. pen.
Non è accolta l'eccezione di inammissibilità, per omesso tentativo di interpretazione costituzionalmente orientata, delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 464-bis, comma 2, e 521, comma 1, cod. proc. pen. Il rimettente ha non già omesso, bensì risolto con esito negativo la verifica di praticabilità di una esegesi costituzionalmente orientata della normativa denunciata, deducendo l'impraticabilità di una rimessione in termini dell'imputato per la richiesta di ammissione alla sospensione del processo con messa alla prova in caso di diversa qualificazione del fatto a conclusione del giudizio abbreviato. Tanto basta ai fini dell'ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale proposte, attenendo invece al merito la valutazione se delle disposizioni censurate possa in effetti darsi una lettura conforme a Costituzione. ( Precedenti citati: sentenze n. 135 del 2018, n. 255 e n. 53 del 2017 ).
Sono dichiarate non fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale - sollevate dal GUP del Tribunale di Catania in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost. - degli artt. 464- bis , comma 2, e 521, comma 1, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedono la possibilità di disporre la sospensione del procedimento con messa alla prova ove, in esito al giudizio, il fatto di reato venga, su sollecitazione del medesimo imputato, diversamente qualificato dal giudice così da rientrare in uno di quelli contemplati dal primo comma dell'art. 168-bis cod. pen. Le disposizioni censurate ben si prestano a essere interpretate in modo da consentire al giudice - allorché, in esito al giudizio, riscontri che il proprio precedente diniego era ingiustificato, sulla base della riqualificazione giuridica del fatto contestato - di ammettere l'imputato al rito alternativo della sospensione con messa alla prova, che egli aveva a suo tempo richiesto entro i termini di legge, e di garantirgli in tal modo i benefici sanzionatori ad esso connessi, assicurando che l'errore compiuto dalla pubblica accusa non si risolva in un irreparabile pregiudizio a suo danno, indipendentemente dalla possibilità di conseguire o meno, nel caso concreto, un effetto deflattivo sul carico della giustizia penale, a cui tra l'altro mirano i procedimenti speciali in parola. Tale interpretazione non solo non trova alcun ostacolo nel tenore letterale delle disposizioni censurate, ma è anche conforme all'orientamento della giurisprudenza di legittimità ed appare altresì l'unica in grado di assicurare un risultato ermeneutico compatibile con i parametri costituzionali invocati dal rimettente. ( Precedenti citati: sentenze n. 141 del 2018, n. 237 del 2012, n. 333 del 2009, n. 219 del 2004, n. 148 del 2004, n. 70 del 1996, n. 497 del 1995, n. 265 del 1994 e n. 76 del 1993 ). La richiesta di riti alternativi, categoria di cui fa parte anche la sospensione del procedimento con messa alla prova, costituisce una modalità, tra le più qualificanti, di esercizio del diritto di difesa. Lo speciale procedimento di sospensione del processo con messa alla prova costituisce un vero e proprio rito alternativo, in grado di assicurare significativi benefici in termini sanzionatori all'imputato in cambio - tra l'altro - di una sua rinuncia a esercitare nella loro piena estensione i propri diritti di difesa in un processo ordinario. ( Precedenti citati: sentenze n. 91 del 2018 e n. 240 del 2015 ).
È inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 424, 429 e 521, comma 1, cod. proc. pen., impugnati, in riferimento agli artt. 3, 24, 111, terzo comma, e 117, primo comma, Cost., nella parte in cui prevedono che il GUP possa disporre il rinvio a giudizio dell'imputato in relazione ad un fatto qualificato, di ufficio, giuridicamente in maniera diversa, senza consentire il previo ed effettivo sviluppo del contraddittorio sul punto, chiedendo al P.M. di modificare la qualificazione giuridica del fatto e, in caso di inerzia dell'organo dell'accusa, disponendo la trasmissione degli atti al medesimo P.M. Premesso che il principio di necessaria correlazione tra imputazione contestata e sentenza - espressamente codificato dall'art. 521 cod. proc. pen. per la fase del giudizio, ma applicabile analogicamente anche all'udienza preliminare - è diretto a garantire il contraddittorio e il diritto di difesa dell'imputato nonché il controllo giurisdizionale sul corretto esercizio dell'azione penale; e che il medesimo principio, se da un lato consente al giudice di attribuire al fatto una definizione giuridica diversa, dall'altro gli impone di trasmettere gli atti al pubblico ministero se accerta che il fatto è diverso da quello descritto nell'imputazione; l'omessa precisazione delle ragioni per le quali, nella fattispecie oggetto del giudizio principale, il fatto debba ritenersi diversamente qualificato e non si tratti, piuttosto, di un fatto diverso rispetto a quello originariamente contestato non permette di valutare la necessaria pregiudizialità della sollevata questione di costituzionalità, sicché la motivazione sulla rilevanza è insufficiente. Un ulteriore motivo di inammissibilità risiede nella sollecitazione di una pronunzia additiva, non avente carattere di soluzione costituzionalmente obbligata, ma rientrante nell'ambito di scelte discrezionali riservate al legislatore. Il difetto di una soluzione costituzionalmente imposta è comprovato dalla circostanza che lo stesso giudice a quo , dapprima, si sofferma su talune procedure adottabili dal GUP per far cadere i dubbi di legittimità della censurata disciplina (quali l'adozione di un'apposita ordinanza con cui informare le parti della diversa qualificazione giuridica attribuita al fatto, così da consentire il contraddittorio sul punto, ovvero l'applicazione analogica dell'art. 521, comma 2, cod. proc. pen) e, poi, ritenendole inadeguate, valuta come indispensabile l'intervento della Corte mediante una decisione additiva che preveda la regressione del procedimento nella fase delle indagini preliminari, attraverso la restituzione degli atti all'organo dell'accusa. Peraltro, la soluzione prospettata dal rimettente tende ad ottenere la parificazione di situazioni processuali tra loro non omogenee, quali l'accertamento che un fatto debba essere diversamente qualificato e la constatazione che il fatto è differente da quello descritto nel decreto che dispone il giudizio. La decisione richiesta, dunque, coinvolgendo scelte relative alla conformazione della disciplina processuale, rientra nella discrezionalità del Parlamento. Nel senso che la necessaria correlazione tra accusa e sentenza è posta anche «al fine del controllo giurisdizionale sul corretto esercizio dell'azione penale, dal che si desume che la costante corrispondenza dell'imputazione a quanto emerge dagli atti è una esigenza presente in ogni fase processuale e, quindi, anche nell'udienza preliminare», v. la citata sentenza n. 88/1994. Per la manifesta inammissibilità di questioni motivate in modo tale da non permettere la valutazione della rilevanza nel giudizio a quo , v. le seguenti citate decisioni: sentenza n. 58/2009, ordinanze n. 15/2009, n. 312/2008 e n. 100/2008. Sull'inammissibilità di questioni tese a richiedere una pronuncia additiva non costituzionalmente obbligata in una materia riservata alla discrezionalità del legislatore, v., ex plurimis , le seguenti citate decisioni: sentenza n. 183/2008, ordinanze n. 193/2009, n. 80/2009 e n. 379/2008.
E? manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 521-bis, comma 1, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede la trasmissione degli atti al pubblico ministero quando, a seguito della contestazione di un fatto diverso o di un reato concorrente in relazione a fatti che già risultavano dagli atti di indagine, il reato è attribuito alla cognizione del tribunale in composizione collegiale anziché monocratica, sollevata in relazione agli artt. 3 e 24 Cost. Infatti, la richiesta dell'attuale rimettente di trasmissione degli atti al pubblico ministero è comunque incongrua rispetto ad un sistema ora complessivamente improntato, per esigenze di speditezza e di economia, all'opposto principio di non regressione del procedimento. - V. sentenze n. 169/2003 e n. 54/2002.
Manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 521-bis del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, nella parte in cui non prevede la trasmissione degli atti al pubblico ministero in tutte le ipotesi in cui, a seguito della modifica dell'imputazione o della contestazione di un reato concorrente in relazione a fatti che già risultavano dagli atti di indagine, il reato è attribuito alla cognizione del tribunale in composizione collegiale anziché monocratica. Infatti il rimettente dà atto che l'imputato non ha presentato alcuna richiesta di giudizio abbreviato, mentre il rito alternativo in esame dipende dalla iniziativa della parte, sicché difetta il necessario requisito della pregiudizialità della questione rispetto alla definizione del giudizio 'a quo'.
Manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 521-bis del codice di procedura penale, in relazione agli articoli 516 e 517 dello stesso codice, sollevata in riferimento agli articoli 3 e 24 della Costituzione, nella parte in cui prevede che in caso di nuove contestazioni in dibattimento il giudice dispone la trasmissione degli atti al pubblico ministero solo quando, risultando il reato tra quelli attribuiti alla cognizione del tribunale per i quali deve essere celebrata l'udienza preliminare, questa non si sia tenuta e non anche nell'ipotesi in cui per il reato originariamente contestato la prevista udienza preliminare si sia, invece, ritualmente già tenuta, privando con ciò l'imputato della possibilità di accedere, in ordine al fatto diversamente contestato, ai riti alternativi, che devono essere chiesti a pena di decadenza nella fase dell'udienza preliminare. Il mutamento del quadro normativo configurato dal decreto legislativo n. 51 del 1998 e dalla legge n. 479 del 1999, e successive modifiche, non comporta, infatti, il superamento della 'ratio' e della portata delle sentenze costituzionali n. 265 del 1994 e n. 530 del 1995 invocate dal rimettente a sostegno della soluzione della restituzione nel termine; tanto più ove si consideri, da un lato, che l'attuale ripartizione della competenza a celebrare i riti alternativi tra giudice dell'udienza preliminare e giudice del dibattimento risponde essenzialmente, nell'intenzione del legislatore, a ragioni di speditezza processuale, dall'altro che tali ragioni sono oggi assistite dal principio costituzionale della ragionevole durata del processo enunciato nel secondo comma dell'articolo 111 della Costituzione. ? Sull'istituto della restituzione nel termine per la richiesta di applicazione della pena, citate, oltre le ricordate sentenze n. 265/1994 e n. 530/1995, la sentenza n. 101/1993, per come richiamata dalla sentenza n. 265/1994.