Articolo 197 - CODICE PROCEDURA PENALE
Massime della Corte Costituzionale
Testo dell'articolo aggiornato secondo le disposizioni legislative vigenti.
Testo dell'articolo aggiornato secondo le disposizioni legislative vigenti.
L'oggetto della questione di legittimità costituzionale degli artt. 197-bis, commi 3 e 6, e 192, comma 3, cod. proc. pen., sollevata dal Tribunale di Macerata in riferimento all'art. 3 Cost., deve essere limitato ai soli citati commi dell'art. 197-bis, e in particolare al comma 6, poiché le censure del rimettente non investono la regola di giudizio contenuta nell'art. 192, comma 3, sulla valutazione delle dichiarazioni delle persone imputate in un procedimento connesso, ma esclusivamente l'applicabilità di tale regola alle dichiarazioni dei testimoni assistiti per effetto del rinvio operato dall'art. 197-bis, comma 6.
È inammissibile - per difetto di rilevanza - la questione di legittimità costituzionale dell'art. 197-bis, comma 3, cod. proc. pen., censurato dal Tribunale di Macerata, in riferimento all'art. 3 Cost., nella parte in cui prevede l'assistenza di un difensore anche per le dichiarazioni di imputati in un procedimento connesso o di un reato collegato, assolti in via definitiva perché il fatto non sussiste. Nel processo a quo non occorre più fare applicazione della disposizione censurata, in quanto il testimone, imputato di reato collegato e assolto perché il fatto non sussiste, è stato già sentito alla presenza del difensore.
È dichiarato costituzionalmente illegittimo - per violazione dell'art. 3 Cost. - l'art. 197-bis, comma 6, cod. proc. pen., nella parte in cui prevede l'applicazione della disposizione di cui all'art. 192, comma 3, del medesimo codice di rito anche per le dichiarazioni rese dalle persone, indicate al comma 1 dell'art. 197-bis cod. proc. pen., nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di assoluzione "perché il fatto non sussiste" divenuta irrevocabile. La disposizione censurata dal Tribunale di Macerata - che limita il valore probatorio delle dichiarazioni rese, come testimoni assistiti, da persone imputate in procedimento connesso o per reato collegato - è già stata dichiarata costituzionalmente illegittima dalla sentenza n. 381 del 2006 limitatamente al caso del dichiarante assolto "per non aver commesso il fatto", ma risulta parimenti priva di razionale giustificazione e lesiva del principio di eguaglianza anche nel caso di assoluzione "perché il fatto non sussiste", che costituisce una formula liberatoria nel merito di uguale ampiezza. In entrambi i casi, l'efficacia di un giudicato di assoluzione - che pure esclude, per il dichiarante, qualsiasi responsabilità rispetto ai fatti oggetto del giudizio - risulta sostanzialmente svilita dalla presunzione di minore attendibilità delle sue dichiarazioni, scaturente dall'applicazione ad esse della regola legale di valutazione enunciata nell'art. 192, comma 3, cod. proc. pen. Detta presunzione risulta, inoltre, irragionevolmente discordante rispetto alle regulae iuris che presiedono alla valutazione giudiziale delle dichiarazioni rese dal teste ordinario, nonostante la comune condizione di assoluta indifferenza rispetto alla vicenda oggetto di giudizio, che connota le tipologie di dichiaranti in comparazione. A una ulteriore ingiustificata disparità di trattamento ha dato luogo la citata sentenza n. 381 del 2006, differenziando il regime e il valore probatorio delle dichiarazioni dell'imputato in un procedimento connesso o di un reato collegato, a seconda che l'assoluzione sia stata pronunciata per non aver commesso il fatto o perché il fatto non sussiste. ( Precedenti citati: sentenza n. 381 del 2006; ordinanza n. 265 del 2004 , concernente le dichiarazioni rese da un coimputato nel medesimo reato, già giudicato con sentenza irrevocabile di patteggiamento ).
È dichiarato costituzionalmente illegittimo - in applicazione dell'art. 27 della legge n. 87 del 1953 - l'art. 197-bis, comma 3, cod. proc. pen., nella parte in cui prevede l'assistenza di un difensore anche per le dichiarazioni rese dalle persone, indicate al comma 1 del medesimo art. 197-bis, nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di assoluzione "perché il fatto non sussiste" divenuta irrevocabile. Tale dichiarazione di parziale incostituzionalità - consequenziale a quella del comma 6 dello stesso art. 197-bis - si impone per evitare che la testimonianza del dichiarante, imputato in un procedimento connesso o di un reato collegato poi assolto "perché il fatto non sussiste", resti soggetta a una modalità di assunzione della prova che è strettamente correlata, in un regime di testimonianza assistita, alla caducata limitazione del valore probatorio delle sue dichiarazioni, e per non lasciare parzialmente in vita l'ingiustificata disparità di trattamento (rispetto alle dichiarazioni dell'imputato assolto "per non aver commesso il fatto"), alla quale tale caducazione ha posto riparo.
È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento agli artt. 3, 97 e 111 Cost., dell'art. 197, comma 1, lett. d ), cod. proc. pen., nella parte in cui non consente di assumere come testimoni coloro che, nel medesimo procedimento, hanno svolto la funzione di giudice - in particolare, quali componenti di un collegio - neppure nel caso in cui la prova testimoniale sia finalizzata esclusivamente ad accertare l'esistenza di un errore materiale nella redazione del verbale che documenta gli atti ai quali hanno partecipato. Il richiamo all'art. 97 Cost. è inconferente, giacché, per costante giurisprudenza, il principio del buon andamento è riferibile all'amministrazione della giustizia soltanto per quanto attiene all'organizzazione e al funzionamento degli uffici giudiziari, e non anche in rapporto all'esercizio della funzione giurisdizionale, alla quale si riferisce la norma processuale censurata. Non sussiste, inoltre, la violazione del principio di ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.), in quanto la regressione del procedimento quale conseguenza della dichiarazione di nullità della sentenza appellata costituisce un inconveniente di fatto, legato alle particolari modalità di svolgimento del giudizio a quo , e non un effetto collegato alla struttura della norma censurata. Infondata, infine, è anche la censura proposta per violazione del principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.), poiché, come già rimarcato dalla Corte, la norma censurata delinea nei confronti del giudice - oltre che del pubblico ministero e dei loro ausiliari - uno status di vera e propria incapacità a testimoniare, pienamente giustificato in ragione dell'assoluta inconciliabilità funzionale tra il ruolo dei predetti soggetti e quello di testimone, considerato in particolare che, quando i fatti sono appresi nell'esercizio delle funzioni giudiziarie, essi verrebbero ad assumere un ruolo ontologicamente incompatibile con le posizioni processuali di assoluta terzietà e imparzialità del giudice, di personale estraneità e distacco del pubblico ministero dai fatti di causa. Tale conclusione si impone a maggior ragione nel caso di specie essendo del tutto ragionevole che la dimostrazione di un errore materiale, desumibile aliunde , riguardo all'indicazione di taluno dei componenti del collegio giudicante non possa essere offerta, nel medesimo processo, tramite la testimonianza dei diretti interessati. - Nel senso della non riferibilità dell'art. 97 Cost. all'esercizio della funzione giurisdizionale v., ex plurimis , le seguenti citate decisioni: sentenza n. 10/2013; ordinanze nn. 243/2013 e 84/2011. - Sulla irrilevanza nel giudizio di legittimità costituzionale degli inconvenienti di fatto non direttamente riconducibili all'applicazione della norma denunciata, v., ex plurimis , le seguenti citate decisioni: sentenza n. 230/2010; ordinanze nn. 112/2013 e 270/2012. - Sulla ratio della incompatibilità prevista dall'art. 197, comma 1, lett. d ), cod. proc. pen., v. la citata sentenza n. 215/1997.
È manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 197- bis , commi 3 e 6, cod. proc. pen., censurato, in riferimento all'art. 3 Cost., nella parte in cui prevede l'assistenza di un difensore e l'applicazione dell'art. 192, comma 3, codice di rito anche per le dichiarazioni rese dall'imputato in procedimento connesso o di reato collegato nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di assoluzione perché il fatto non sussiste. Il rimettente, infatti, ha omesso di descrivere la fattispecie concreta oggetto del giudizio a quo e non ha neppure riportato i capi di imputazione, essendosi limitato alla semplice e astratta enunciazione delle norme di legge violate. -Sulla manifesta inammissibilità per carenze nella descrizione della fattispecie v, citate, ex plurimis , ordinanze n. 223, 55 e n. 49/2008, n. 45/2007.
E' manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 197- bis, comma 4, del codice di procedura penale, censurato, in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, Cost., nella parte in cui non prevede che il soggetto nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di applicazione della pena - e che, nel relativo procedimento, abbia negato la propria responsabilità ovvero non abbia reso alcuna dichiarazione - non possa essere obbligato a deporre, quale testimone, sui fatti oggetto della sentenza medesima. La scelta operata dal legislatore di garantire, in relazione al successivo obbligo testimoniale, maggior cautela per l'imputato condannato a seguito di giudizio, rispetto a quello che abbia scelto di definire la propria posizione processuale mediante il "patteggiamento", risulta non irragionevole alla stregua delle differenti caratteristiche strutturali dei due riti; inoltre il diritto di difesa del soggetto già destinatario di una sentenza di applicazione della pena e chiamato poi a deporre sui fatti oggetto della sentenza medesima è adeguatamente salvaguardato: sia dalle garanzie connaturate alle modalità di audizione di quel soggetto come "testimone assistito", sia dal complesso di garanzie - di diretta derivazione dal precetto costituzionale - che risultano attuate in altre norme del sistema, quali quelle del comma 5 del medesimo art. 197 -bis e del comma 2 dell'art. 198, per il codice di rito, o dell'art. 384 per il codice sostanziale. - Sulle diversità che caratterizzano i due tipi di giudizio posti a raffronto e le sentenze che ne costituiscono l'epilogo, v. le citate sentenze n. 313/1990 e n. 251/1991.
E' costituzionalmente illegittimo, per violazione dell'art. 3 Cost., l'art. 197- bis , commi 3 e 6, cod. proc. pen., nella parte in cui prevede l'assistenza di un difensore e l'applicazione della regola di valutazione della prova di cui all'art. 192, comma 3, cod. proc. pen. anche per le persone, indicate nel comma 1 dello stesso art. 197- bis , nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza definitiva di assoluzione "per non aver commesso il fatto". L'assoggettamento delle dichiarazioni del coimputato, o dell'imputato in procedimento connesso o di reato collegato, già assolto "per non aver commesso il fatto", alla necessità di corroboration con riscontri esterni comporta una compromissione del valore probatorio delle relative dichiarazioni testimoniali priva di razionale giustificazione, poiché la sentenza irrevocabile di assoluzione con detta formula attesta incontrovertibilmente la estraneità del soggetto alla regiudicanda ed elide ogni possibile relazione con la vicenda processuale nel cui ambito è resa la testimonianza. L'aprioristica valutazione negativa del contributo probatorio offerto da un soggetto ormai immune da ogni interesse all'esito del giudizio appare irragionevole ed in contrasto con il principio di eguaglianza, sia per l'ingiustificata disparità di trattamento rispetto alle dichiarazioni rese dal teste ordinario - e ciò nonostante le tipologie di dichiaranti in comparazione risultino omogenee - sia per l'ingiustificata parificazione ai soggetti dichiaranti ex art. 210 cod. proc. pen., che costituiscono tipologia distinta e non assimilabile. > >- Sulla manifesta infondatezza della questione di costituzionalità dell'art. 197- bis cod. proc. pen., censurato nella parte in cui, richiamando l'art. 192, comma 3, cod. proc. pen., rende applicabile alle dichiarazioni la regola di giudizio ivi prevista rese dal coimputato nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza irrevocabile ex art. 444 cod. proc. pen., v., citata, ordinanza n. 265/2004.
E? manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento all?art. 3, primo comma, della Costituzione, dell?art. 197-bis, comma 6, del codice di procedura penale, nella parte in cui prevede che alle dichiarazioni rese dalle persone che assumono l?ufficio di testimone ai sensi del comma 1 dello stesso articolo, si applica la disposizione di cui all?art. 192, comma 3, codice di procedura penale, in forza della quale dette dichiarazioni sono valutate ?unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l?attendibilità?. Non è, infatti, ravvisabile una equivalenza tra il ?testimone assistito? rispetto al teste ordinario, essendo, il primo, una figura significativamente differenziata sul piano del trattamento normativo, per cui l?assoggettamento delle dichiarazioni del ?teste assistito? alla regola della necessaria ?corroborazione? con riscontri esterni, di cui all?art. 192, comma 3, cod. proc, pen. si risolve in un esercizio della discrezionalità che compete al legislatore nella conformazione degli istituti processuali.
Manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell?art. 197-bis, comma 2, del codice di procedura penale, sollevata in riferimento agli artt. 3, 24, 27, 101, 111 e 112 della Costituzione, nella parte in cui non prevede che il coimputato nel medesimo reato o l?imputato di un reato connesso a norma dell?art. 12, comma 1, lettera a), cod. proc. pen., "possa essere sentito come testimone nel caso previsto dall?art. 64, comma 3, lettera c)" del medesimo codice. Ed infatti, come già affermato nell'ordinanza n. 485 del 2002, la disciplina oggetto di impugnativa appare frutto di scelte discrezionali, non irragionevolmente esercitate, con cui il legislatore ha individuato ? in ossequio al principio 'nemo tenetur se detegere' ? situazioni nelle quali il diritto al silenzio, inteso nella sua dimensione di "corollario essenziale dell?inviolabilità del diritto di difesa", va garantito malgrado dal suo esercizio possa conseguire l?impossibilità di formazione della prova testimoniale. ? Sul diritto al silenzio dell'imputato inteso nella sua dimensione di "corollario essenziale dell?inviolabilità del diritto di difesa", da garantire malgrado dal suo esercizio possa conseguire l?impossibilità di formazione della prova testimoniale, v. la citata ordinanza n. 485/2002.