Articolo 459 - CODICE PROCEDURA PENALE
Massime della Corte Costituzionale
Testo dell'articolo aggiornato secondo le disposizioni legislative vigenti.
Testo dell'articolo aggiornato secondo le disposizioni legislative vigenti.
Sono dichiarate manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale - sollevate dal GIP del Tribunale di Macerata in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. - dell'art. 459, comma 1- bis , cod. proc. pen., introdotto dall'art. 1, comma 53, della legge n. 103 del 2017, nella parte in cui prevede che nel procedimento per decreto penale di condanna il valore giornaliero di conversione della pena detentiva in pecuniaria sia pari ad euro 75 e fino a tre volte tale ammontare, tenuto conto della condizione economica complessiva dell'imputato e del suo nucleo familiare. Questioni identiche sono già state dichiarate non fondate con la sentenza n. 155 del 2019, la quale ha affermato che la previsione di un criterio di ragguaglio più favorevole tra pena detentiva e pena pecuniaria nel procedimento per decreto è volta ad incentivare il ricorso a tale rito speciale e che la denunciata eccessiva tenuità del trattamento sanzionatorio introdotto dalla disposizione censurata è insuscettibile di risolversi in un vulnus alla finalità rieducativa della pena. Né sono prospettate argomentazioni diverse da quelle già esaminate. ( Precedente specifico citato: sentenza n. 155 del 2019. Precedenti citati: sentenze n. 40 del 2019, n. 236 del 2018, n. 233 del 2018 e n. 222 del 2018 ).
Non è accolta l'eccezione di inammissibilità - per insufficiente ed erronea motivazione in ordine alla rilevanza - nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 459, comma 1- bis , cod. proc. pen., introdotto dall'art. 1, comma 53, della legge n. 103 del 2017. Il rimettente ha dato conto della rilevanza delle questioni, avendo prospettato una alternativa (emissione del decreto penale di condanna o rigetto della relativa richiesta) che sottende la ritenuta impossibilità di addivenire al proscioglimento dell'imputato o alla restituzione degli atti al pubblico ministero per difetto dei presupposti di ammissibilità del rito, nonché una valutazione almeno implicita di congruità della pena detentiva richiesta dal pubblico ministero. Il rimettente ha inoltre sufficientemente illustrato la vicenda processuale del giudizio a quo, consentendo la verifica della ragionevolezza del più mite trattamento sanzionatorio risultante dall'applicazione della disposizione censurata, rispetto a quello derivante in base all'ordinario parametro di ragguaglio previsto dall'art. 135 cod. pen.
Non inficia l'ammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 459, comma 1- bis , cod. proc. pen., introdotto dall'art. 1, comma 53, della legge n. 103 del 2017, la circostanza che le ordinanze di rimessione - nel censurare l'applicabilità al procedimento per decreto penale di condanna di un trattamento sanzionatorio più mite rispetto a quello conseguibile nell'ambito del rito ordinario e degli altri riti speciali - sollecitino una pronuncia ripristinatoria di un regime sanzionatorio di maggior rigore per l'imputato. Infatti, l'effetto in malam partem di un'eventuale pronuncia di accoglimento delle questioni sollevate non discenderebbe dall'introduzione di nuove norme o dalla manipolazione di norme esistenti, ma conseguirebbe all'automatica riespansione del regime generale di ragguaglio tra pena detentiva e pena pecuniaria, previsto dall'art. 135 cod. pen.
Sono dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale - sollevate dal GIP del Tribunale di Termini Imerese e dal GIP del Tribunale di Macerata in riferimento agli artt. 3, 27 e 111 Cost. - dell'art. 459, comma 1- bis, cod. proc. pen., introdotto dall'art. 1, comma 53, della legge n. 103 del 2017, nella parte in cui prevede che, nel procedimento per decreto penale di condanna, il giudice, nel determinare l'ammontare della pena pecuniaria da irrogare in sostituzione di una pena detentiva, debba tener conto della condizione economica complessiva dell'imputato e del suo nucleo familiare, e che il valore giornaliero di ragguaglio sia non inferiore ad euro 75 e non superiore a tre volte detto ammontare per ogni giorno di pena detentiva. La finalità di incentivare il ricorso al rito speciale per decreto, essenzialmente in chiave deflattiva del contenzioso penale, consente pianamente di escludere la manifesta irragionevolezza del tasso di conversione tra pena detentiva e pena pecuniaria previsto dalla disciplina censurata, anche in rapporto alle diverse discipline dettate nell'ambito del rito ordinario o di altri riti speciali. Inoltre, le differenti condizioni economiche dell'imputato e del suo nucleo familiare - in relazione alle quali l'impatto "esistenziale" di sanzioni pecuniarie di identico importo può essere in concreto assai diverso - giustificano la commisurazione di sanzioni di diversa entità, pur a fronte di illeciti di pari gravità, risultando funzionali a garantire un maggior grado di individualizzazione della pena e senza pregiudizio per la finalità rieducativa della pena. Infine, il - contenuto - dispendio di attività istruttorie supplementari da parte del pubblico ministero relativamente alle condizioni economiche dell'imputato e del suo nucleo familiare risulta conforme al canone della ragionevole durata del processo, perché congruamente giustificato dall'evidente beneficio in termini di "personalizzazione" della risposta sanzionatoria, apparendo altresì funzionale a ridurre il rischio di opposizioni imperniate soltanto sull'incongruità della pena inflitta in relazione alle condizioni economiche del reo e del suo nucleo familiare. ( Precedenti citati: sentenze n. 40 del 2019, n. 233 del 2018 e n. 222 del 2018 ).
È costituzionalmente illegittimo, per contrasto con gli artt. 3 e 111 Cost., l'art. 459, comma 1, cod. proc. pen. (come sostituito dall'art. 37, comma 1, della legge 16 dicembre 1999, n. 479), nella parte in cui prevede la facoltà del querelante di opporsi, in caso di reati perseguibili a querela, alla definizione del procedimento con l'emissione di decreto penale di condanna. La norma censurata non trova, infatti, valida giustificazione né con riferimento alla posizione processuale della persona offesa, né con riguardo a quella del querelante. Quanto alla prima, gli interessi civili sono assicurati dalla possibilità di esercitare la relativa azione in sede propria, mentre l'interesse della persona offesa alla persecuzione del reato è soddisfatto dalla circostanza che il querelante ha visto accolta la sua richiesta di punizione del querelato. In merito, poi, alla ipotizzata sussistenza di un interesse specifico del querelante, distinto da quello della persona offesa, a che il procedimento non si concluda con il decreto penale di condanna, un simile interesse non giustifica la disposizione censurata, risultando essa contraddittoria rispetto alla mancata previsione di una analoga facoltà di opposizione alla definizione del processo mediante l'applicazione della pena su richiesta delle parti. La disposizione contestata si pone pertanto in contrasto sia con il principio di ragionevolezza che con quello di ragionevole durata del processo, stante la funzione acceleratoria del procedimento per decreto che viene ad essere inibito. (È assorbita la censura relativa all'art. 112 Cost.) Per la manifesta infondatezza di questione con la quale si chiedeva, prima della riforma del 1999, una pronuncia volta a escludere l'ammissibilità del ricorso al procedimento per decreto nel caso la persona offesa avesse manifestato l'intenzione di costituirsi parte civile, v. la citata ordinanza n. 124/1999. Sui rapporti fra azione civile e processo penale, nel senso che «l'eventuale impossibilità per il danneggiato di partecipare al processo penale non incide in modo apprezzabile sul suo diritto di difesa e, ancor prima, sul suo diritto di agire in giudizio, poiché resta intatta la possibilità di esercitare l'azione di risarcimento del danno nella sede civile», e che «ogni separazione dell'azione civile dall'ambito del processo penale non può essere considerata come una menomazione o una esclusione del diritto alla tutela giurisdizionale», essendo affidata al legislatore la scelta della configurazione della tutela medesima, in vista delle esigenze proprie del processo penale, v. le citate sentenze nn. 124/1999, 443/1990, 171/1982 e 166/1975. Per l'affermazione che «risulterebbe improprio un sistema che consentisse di esperire un determinato rito alternativo, sussistendone i presupposti, solo in dipendenza di una sorta di determinazione meramente potestativa della persona offesa, che non riveste la qualità di parte», v. la citata ordinanza n. 124 del 1999. Per l'affermazione che «il principio di cui all'art. 3 Cost. è violato non solo quando i trattamenti messi a confronto sono formalmente contraddittori in ragione dell'identità della fattispecie, ma anche quando la differenza di trattamento è irrazionale secondo le regole del discorso pratico, in quanto le rispettive fattispecie, pur diverse, sono ragionevolmente analoghe», v. la citata sentenza n. 1009/1988. Sul principio della ragionevole durata del processo: nel senso che esso «va contemperato con il complesso delle altre garanzie costituzionali, il cui sacrificio non è sindacabile, ove frutto di scelte non prive di una valida ratio giustificativa», v., ex plurimis , le seguenti citate decisioni: sentenza n. 159/2014; ordinanze nn. 332/2008 e 318/2008; nel senso che a tale principio «possono arrecare un vulnus solamente norme procedurali che comportino una dilatazione dei tempi del processo non sorretta da alcuna logica esigenza», v. le citate sentenze nn. 63/2009 e 56/2009. Sulla discrezionalità riconosciuta al legislatore nella conformazione degli istituti processuali, v., ex multis , le seguenti citate decisioni: sentenze nn. 65/2014 e 216/2013; ordinanze nn. 48/2014 e 190/2013. Sulla struttura dello scrutinio di ragionevolezza e del test di proporzionalità, v. le citate sentenze nn. 1/2014 e 1130/1988.
E? manifestamente inammissibile, per indeterminatezza del 'petitum', la questione di legittimità costituzionale dell'art. 459, comma 1, cod. proc. pen., nella parte in cui ? alla stregua della interpretazione ad esso data dal «diritto vivente» ? non è prevista alcuna sanzione di natura processuale per la ipotesi in cui la richiesta di emissione del decreto penale di condanna sia stata formulata, dal pubblico ministero, dopo lo spirare del termine di sei mesi dalla data in cui il nominativo della persona, cui il reato è attribuito, è stato iscritto nel registro delle notizie di reato, sollevata, in riferimento agli artt. 24 e 111, secondo e terzo comma, Cost., per la asserita violazione del diritto di difesa, del principio di ragionevole durata del processo e del diritto dell?imputato ad essere tempestivamente informato dell?accusa. Infatti, il giudice rimettente ? anziché individuare uno specifico quesito di costituzionalità, delineando con esattezza la pronuncia additiva sollecitata in riferimento alla norma o alle norme coinvolte nel dubbio di legittimità ? si è limitato, tanto nella motivazione che nel dispositivo della ordinanza di rimessione, a devolvere a questa Corte sia la scelta del tipo di sanzione da configurare, in presenza del superamento del limite temporale stabilito dall'art. 459, comma 1, del codice di rito; sia la scelta dell'atto o degli atti su cui essa dovrebbe produrre effetti; sia, infine, la scelta delle conseguenze che, quale epilogo delle già indicate opzioni, dovrebbero scaturire sul piano processuale.
Manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento agli artt. 3, 24 e 111, commi terzo, quarto e quinto, della Costituzione, dell?art. 459 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che prima della richiesta del decreto penale di condanna sia notificato all?imputato l?avviso di cui all?art. 415-bis cod. proc. pen.. Invero, analoghe questioni di legittimità costituzionale sono state dichiarate manifestamente infondate con ordinanze n. 432 del 1998 (ed i precedenti ivi menzionati) e nn. 325, 326, 458 del 1999 e, in assenza di nuovi o diversi profili di incostituzionalità, anche la questione all?esame dev?essere decisa in egual modo.
Manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale, sollevata, in riferimento agli artt. 24 e 111 della Costituzione, dell'art. 459 del codice di procedura penale in quanto non consente alla difesa dell'imputato di interloquire sulla richiesta del pubblico ministero di emissione del decreto di condanna. Infatti, in precedenti decisioni, la Corte costituzionale ha ribadito che nel procedimento monitorio l'esigenza di garantire la conoscenza dell'indagine si trasferisce sulla fase processuale, conseguente all'esercizio dell'opposizione, costituendo il decreto penale soltanto «una decisione preliminare», in relazione alla quale l'esperimento dei mezzi di difesa, con la stessa ampiezza dei procedimenti ordinari, si colloca nel vero e proprio giudizio che segue all'opposizione. Inoltre, l'art. 111 della Costituzione, non impone affatto che il contraddittorio debba sempre essere collocato nella fase iniziale del procedimento stesso e non esclude che il diritto dell'indagato di essere informato nel più breve tempo possibile dei motivi dell'accusa a suo carico possa essere variamente modulato in relazione alla peculiare struttura dei singoli riti alternativi. > > > >- Per le pronunce cui si fa riferimento, v. le ordinanze di manifesta infondatezza n. 8/2003 e n. 132/2003. > > > >- Sulla peculiare configurazione e sulla funzione del procedimento per decreto in relazione al diritto di difesa e al principio del giusto processo v. ordinanze, citate, n. 8/2003 e n. 132/2003. > > > >- Sulla possibilità di regolare in modo differenziato l'esercizio del diritto di difesa per adattarlo alle specifiche caratteristiche dei singoli procedimenti v. ordinanza, citata, n. 203/2002 (in materia di giudizio immediato).
Manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 459 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 24 e 111 della Costituzione, nella parte in cui non prevede che il giudice per le indagini preliminari, prima di emettere decreto penale di condanna, debba consentire alla difesa l'intervento perchè possa eventualmente esplicare le proprie argomentazioni difensive. Infatti la disciplina in esame non si pone in contrasto con i principi in materia di difesa e giusto processo, in quanto il decreto penale svolge la funzione di informazione dei motivi dell'accusa, al fine di consentire l'instaurazione del contraddittorio tra accusa e difesa, e di porre l'imputato nelle condizioni di operare una scelta consapevole tra l'opposizione e l'acquiescenza al decreto. - Questione del tutto simile è stata dichiarata manifestamente infondata con l'ordinanza, citata, n. 8/2003. V. anche, citate, ordinanze n. 432/1998, n. 325/1999, n. 326/1999, n. 458/1999, n. 203/2002.
Manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale degli artt. 459 e 460 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 24 e 111 della Costituzione, nella parte in cui non prevede che il giudice per le indagini preliminari, prima di emettere decreto penale di condanna, debba consentire alla difesa l'intervento perchè possa eventualmente esplicare le proprie argomentazioni difensive. Infatti l'ordinanza di rimessione è completamente priva di motivazione sia in ordine alla rilevanza che alla non manifesta infondatezza.