Articolo 275 - CODICE PROCEDURA PENALE
Massime della Corte Costituzionale
Testo dell'articolo aggiornato secondo le disposizioni legislative vigenti.
Testo dell'articolo aggiornato secondo le disposizioni legislative vigenti.
Nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 275, comma 3, cod. proc. pen, non è accolta l'eccezione di improcedibilità e inammissibilità delle questioni prospettate. Non solo l'eccezione non è sorretta da alcuna motivazione in proposito, ma le questioni appaiono puntualmente motivate sotto il duplice profilo della rilevanza e della non manifesta infondatezza.
Sono dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale, sollevate dalla Corte di assise di Torino in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma e 27, secondo comma, Cost., dell'art. 275, comma 3, cod. proc. pen. nella parte in cui - nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all'art. 270-bis cod. pen., è sempre applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non fa salva, altresì, l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possano essere soddisfatte con misure meno afflittive. La pratica impossibilità di impedire che la persona sottoposta a misura extramuraria riprenda i contatti con gli altri associati ancora in libertà attraverso l'uso di telefoni e di internet fa sì che la presunzione assoluta censurata (valida anche per i delitti associativi di cui agli artt. 416-bis e 270 cod. pen.) appaia sostenuta da una congrua base empirico-fattuale, sì da sottrarsi al giudizio di irragionevolezza. La compressione, peraltro solo parziale, dei poteri discrezionali del giudice trova infatti giustificazione dai gravissimi rischi che potrebbero derivare dall'eventuale sua sopravvalutazione dell'adeguatezza di una misura non carceraria a contenere il pericolo di commissione di reati. Resta fermo, naturalmente, il dovere del giudice di valutare, nella fase genetica e poi nell'intero arco della vicenda cautelare, l'effettiva sussistenza e permanenza delle esigenze cautelari, e di disporre la revoca della misura in essere ogniqualvolta risulti che nel caso concreto tali esigenze non sussistano o siano cessate. ( Precedenti citati: sentenze n. 231 del 2011, n. 110 del 2012, n. 265 del 2010, n. 48 del 2015, n. 57 del 2013, n. 1 del 1980 e n. 64 del 1970; ordinanze n. 136 del 2017 e n. 450 del 1995 ). Sebbene l'art. 270- bis cod. pen. non fornisca alcuna descrizione del modus operandi dell'associazione criminosa ivi disciplinata, né contempli alcun requisito oggettivo in grado di orientare la discrezionalità dell'interprete, in base a una interpretazione costituzionalmente orientata della fattispecie - che ne escluda ogni possibile utilizzo quale strumento di repressione del semplice dissenso o di mere ideologie eversive -, la partecipazione a un'associazione terroristica, pur avendo caratteristiche affatto differenti rispetto all'associazione di tipo mafioso (non essendo necessariamente caratterizzata da rigide gerarchie, da precise regole di ingresso nel sodalizio, né dal controllo sul territorio), non si esaurisce nel compimento di azioni concrete, ma presuppone l'adesione a un'ideologia che teorizza l'uso della violenza in una scala dimensionale tale da poter cagionare un grave danno a intere collettività, e che normalmente perdura anche durante le indagini e il processo, e comunque non viene meno per il solo fatto dell'ingresso in carcere del soggetto. I principi indicati dagli artt. 273, 274 e 275 cod. proc. pen. in materia di scelta delle misure cautelari - che operano non solo nella fase genetica della misura, ma anche durante l'intera sua esecuzione - riflettono il rango assegnato, nel nostro ordinamento, al diritto alla libertà personale, definito "inviolabile" dall'art. 13, primo comma, Cost. Essi corrispondono, altresì, all'interpretazione dell'art. 5 della CEDU fornita dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, e si compendiano, in definitiva, nel principio del minor sacrificio della libertà personale, il cui rispetto è necessario anche a garantire la compatibilità con la presunzione di innocenza di cui all'art. 27, secondo comma, Cost. della compressione della libertà personale dell'indagato e dell'imputato sino alla condanna definitiva. ( Precedente citato: sentenza n. 299 del 2005 ). Le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, pur se in astratto non incompatibili con i principi costituzionali in materia di misure cautelari e di tutela della libertà personale della persona indiziata di reato - per cui non è consentito al giudice comune di estendere direttamente ad altre fattispecie di reato la ratio decidendi di sentenze di illegittimità costituzionale riferite a singole e ben determinate fattispecie -, violano il principio di eguaglianza se sono arbitrarie e irrazionali, e cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell'id quod plerumque accidit. In tali casi, a determinare il vulnus al principio di eguaglianza - e conseguentemente alle ragioni di tutela del diritto alla libertà personale e della presunzione di innocenza - è il carattere assoluto della presunzione di adeguatezza, che implica una indiscriminata e totale negazione di rilievo al principio del "minimo sacrificio necessario" della libertà personale dell'interessato. ( Precedenti citati: sentenze n. 48 del 2015, n. 232 del 2013, n. 213 del 2013, n. 57 del 2013, n. 110 del 2012, n. 331 del 2011, n. 231 del 2011, n. 164 del 2011, n. 265 del 2010, n. 139 del 2010 ).
Sono dichiarate manifestamente inammissibili - per omessa delimitazione del thema decidendum - le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 275, commi 4 e 4-bis, 276, comma 1-ter, e 299, comma 4-ter, cod. proc. pen., nonché dell'art. 42, commi 1 e 2, della legge n. 354 del 1975, censurati dal GIP del Tribunale di Lecce in riferimento agli artt. 3 e 117 Cost., in relazione agli artt. 3, commi 1 e 2, 4 e 6, comma 2, della Convenzione sui diritti del fanciullo. Nel denunciare la possibilità che dallo stato di detenzione cautelare del genitore derivi pregiudizio alla salute e all'armonico sviluppo del figlio minore, il rimettente solleva - ponendoli in rapporto di alternatività non risolta, anziché di subordinazione logica - due gruppi di questioni relativi a disposizioni del tutto diverse, rispettivamente del codice di procedura penale e dell'ordinamento penitenziario, in vista dell'ottenimento di risultati eterogenei, quali, da un lato, la concessione al genitore degli arresti domiciliari e, dall'altro, il trasferimento del medesimo in un carcere vicino al nucleo familiare, con il risultato di lasciare irrisolta la scelta tra i due diversi rimedi e attribuire impropriamente alla Corte costituzionale l'individuazione dell'oggetto del giudizio di costituzionalità. ( Precedenti citati: sentenze n. 22 del 2016 e n. 248 del 2014; ordinanze n. 46 del 2016, n. 18 del 2016, n. 4 del 2016, n. 207 del 2015 e n. 41 del 2015, sulla inammissibilità di questioni prospettate in rapporto di alternatività irrisolta ).
Non è accolta l'eccezione di inammissibilità - per carente descrizione della fattispecie di causa - della questione di legittimità costituzionale dell'art. 275, comma 3, cod. proc. pen., nella parte in cui, per il delitto di associazione di tipo mafioso, non consente al giudice di valutare in concreto la pericolosità delle diverse condotte e applicare misure cautelari diverse dalla custodia carceraria, ove sufficienti a soddisfare le esigenze preventive. Pur avendo inizialmente richiamato in modo generico solo l'art. 416-bis cod. pen., nella successiva illustrazione delle ragioni di censura il rimettente ha dato ulteriori informazioni sulle caratteristiche dell'associazione, sulla sua attuale operatività, sui suoi collegamenti con la "casa madre", sulla condotta contestata all'associato e sui suoi legami con gli altri membri dell'organizzazione criminosa, così da delineare un quadro fattuale e processuale idoneo a dimostrare la rilevanza della questione sollevata.
È dichiarata manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 275, comma 3, cod. proc. pen., censurato dalla Corte d'appello di Torino - in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost. - nella parte in cui, nell'imporre l'applicazione della misura della custodia cautelare in carcere quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all'art. 416-bis cod. pen. (associazione di tipo mafioso), fa salva solo l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari, e non anche quella in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. La disposizione censurata non comporta un ingiustificato assoggettamento di condotte diverse alla medesima regola cautelare, in quanto la diversa graduazione di gravità e di pericolosità tra le condotte dei singoli appartenenti all'associazione rileva ai fini della determinazione della pena da irrogare in concreto, ma non incide sulle esigenze cautelari. In ordine a queste, anche la semplice partecipazione all'associazione di tipo mafioso è idonea a giustificare la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia carceraria, posta a base del regime speciale di cui al citato art. 275, comma 3, poiché l'unico dato rilevante - ugualmente riferibile al partecipe e agli associati con ruoli apicali - è costituito dal tipo di vincolo che li lega nel contesto associativo, il quale, per la forza di intimidazione e le condizioni di assoggettamento e di omertà che esprime, fa ritenere le misure cautelari "minori" insufficienti a troncare i rapporti tra l'indiziato e l'ambito delinquenziale di appartenenza in modo da neutralizzarne la pericolosità. Le ragioni giustificatrici di tale regola cautelare rendono evidente anche l'infondatezza delle censure svolte in riferimento agli artt. 13 e 27 Cost. ( Precedente citato: sentenza n. 265 del 2010 ). L'elemento in grado di legittimare costituzionalmente la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia in carcere per gli indiziati del reato di cui all'art. 416-bis cod. pen. è la ragionevole convinzione, basata su una congrua "base statistica", che l'appartenenza a un'associazione di tipo mafioso implica, nella generalità dei casi e secondo una regola di esperienza sufficientemente condivisa, un'esigenza cautelare che può essere soddisfatta solo con la custodia in carcere, non essendo le misure "minori" sufficienti a troncare i rapporti tra l'indiziato e l'ambito delinquenziale di appartenenza in modo da neutralizzarne la pericolosità. ( Precedenti citati: sentenza n. 265 del 2010; sentenze n. 48 del 2015, n. 57 del 2013 e n. 231 del 2011, che hanno tenuto ferma la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia carceraria per il delitto ex art. 416-bis cod. pen., trasformandola in relativa per fattispecie criminose contigue, ma non caratterizzate da un'uguale esigenza cautelare, ossia il concorso esterno nell'associazione di tipo mafioso, i delitti aggravati dall'uso del metodo mafioso o dalla finalità di agevolazione mafiosa, il delitto di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti ).
È dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 275, comma 4, cod. proc. pen., censurato dal Tribunale di Roma - in riferimento agli artt. 3, 13, 24 e 111 Cost. - nella parte in cui, prevedendo "che non possa essere disposta o mantenuta la custodia cautelare in carcere nei confronti di imputati [...] per gravi reati, che siano genitori di prole solo di età non superiore a sei anni", imporrebbe automaticamente l'applicazione della misura cautelare carceraria al compimento del sesto anno d'età del minore, senza permettere al giudice di valutare le particolarità del caso concreto, con asserita lesione dell'effettività dell'obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali in materia di libertà personale. Il limite legislativo dei sei anni di età del minore - cui è condizionata l'operatività del divieto di custodia carceraria nei confronti della madre imputata per gravi delitti (in specie, di tipo mafioso) - non può essere accostato alle presunzioni legali assolute che comportano l'applicazione di determinate misure o pene sulla base di un titolo di reato, poiché il divieto di applicazione della custodia carceraria, previsto (salve esigenze cautelari di eccezionale rilevanza) dalla disposizione censurata, prescinde dal titolo di reato, riferendosi in generale ad alcune categorie di imputati (tra i quali la madre di figli minori infraseienni con lei conviventi). L'automatismo denunciato dal rimettente è, semmai, quello contenuto nell'art. 275, comma 3, cod. proc. pen., che stabilisce una presunzione - considerata non irragionevole dalla Corte costituzionale - di adeguatezza della sola custodia cautelare carceraria per gli imputati di alcuni gravi reati, tra i quali quello di cui all'art. 416-bis cod. pen. Al contrario, il censurato comma 4 dello stesso art. 275 comporta una deroga (sia pur soggetta a condizioni e limiti) ai criteri di scelta delle misure cautelari dettati dai precedenti commi dello stesso articolo, e, quindi, anche alla suddetta presunzione legale. ( Precedenti citati: sentenze n. 48 del 2015, n. 57 del 2013 e n. 265 del 2010, ordinanza n. 450 del 1995, sulla non irragionevolezza della valutazione legislativa, basata sull'id quod plerumque accidit, di adeguatezza della sola misura custodiale carceraria per gli imputati di reati di stampo mafioso ).
È dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 275, comma 4, cod. proc. pen., censurato dal Tribunale di Roma - in riferimento agli artt. 3 e 31, [secondo comma], Cost. (quest'ultimo anche alla luce della Convenzione sui diritti del fanciullo) - nella parte in cui, prevedendo "che non possa essere disposta o mantenuta la custodia cautelare in carcere nei confronti di imputati [...] per gravi reati, che siano genitori di prole solo di età non superiore a sei anni", sacrificherebbe irragionevolmente alle esigenze cautelari l'interesse del minore a fruire oltre tale età dell'assistenza e delle cure genitoriali. La disposizione censurata è frutto di un non irragionevole bilanciamento, compiuto necessariamente in astratto dal legislatore, tra le esigenze di difesa sociale, sottese a quelle cautelari, e l'interesse, anch'esso di rilievo costituzionale, alla protezione dell'infanzia, garantita dall'art. 31 Cost., poiché non preclude in assoluto alla madre imputata per gravi reati di accedere alla misura cautelare più idonea a garantire il suo rapporto col figlio minore in tenera età, ma stabilisce che tale accesso trova un limite laddove il minore abbia compiuto l'età di sei anni, la quale coincide (in base a dati di esperienza tenuti in conto nei lavori preparatori della legge n. 62 del 2011) con l'assunzione, da parte del minore, dei primi obblighi di scolarizzazione e, dunque, con l'inizio di un processo di relativa autonomizzazione rispetto alla madre. Non può quindi accogliersi la richiesta di una pronuncia additiva che - cancellando il bilanciamento non manifestamente irragionevole operato dal legislatore - attribuisca prevalenza assoluta all'interesse del minore, indipendentemente dalla sua età, a mantenere un rapporto continuativo con la madre; né minori incongruità produrrebbe una soluzione che affidasse alla discrezionalità del giudice penale l'apprezzamento, caso per caso, della particolare condizione del minore di qualsiasi età, derivando da essa l'incoerente condizione di un giudice penale chiamato ad applicare una misura nei confronti di un imputato, sulla base di valutazioni relative non già a quest'ultimo, ma a un soggetto terzo - il minore - estraneo al processo. ( Precedenti citati: sentenze n. 239 del 2014 e n. 177 del 2009, ordinanza n. 145 del 2009, sulla protezione costituzionale dell'infanzia ). I criteri oggettivi calibrati sull'età del minore - indicati da tutte le misure che i codici penale e di procedura penale e l'ordinamento penitenziario prevedono a tutela dei minori estranei al processo e non coinvolti nelle valutazioni sulla pericolosità del genitore imputato - costituiscono anche un efficace usbergo della serenità del giudice, chiamato a delicate decisioni, in special modo nei casi relativi a gravi delitti di criminalità organizzata. Nelle ipotesi in cui la giurisprudenza costituzionale ha consentito al giudice di derogare caso per caso a limiti o differenze di età fissati dal legislatore per l'adozione di minori, la valutazione più flessibile è condotta secondo modalità tutte interne al preminente interesse del minore, senza confliggere con altri, e opposti, interessi di rango costituzionale. ( Precedenti citati: sentenze n. 283 del 1999, n. 303 del 1996, n. 148 del 1992, n. 44 del 1990 e n. 183 del 1988 ).
È dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 275, comma 4, cod. proc. pen., censurato dal Tribunale di Roma - in riferimento all'art. 3 Cost. - nella parte in cui, prevedendo "che non possa essere disposta o mantenuta la custodia cautelare in carcere nei confronti di imputati [...] per gravi reati, che siano genitori di prole solo di età non superiore a sei anni", tutelerebbe il preminente interesse dei minori, figli di genitori imputati, solo fino al sesto anno d'età, anziché fino al decimo, come previsto da varie disposizioni dell'ordinamento penitenziario per i minori figli di soggetti già condannati in via definitiva. Se è vero che l'interesse del minore non muta a seconda del titolo (cautelare o esecutivo) che legittima la restrizione della libertà personale del genitore, le esigenze di difesa sociale sono di natura profondamente diversa a seconda del titolo di detenzione, essendo le misure cautelari, a differenza della pena, volte a presidiare i pericula libertatis, cioè ad evitare la fuga, l'inquinamento delle prove e la commissione di reati. Ne consegue che il principio da porre in bilanciamento con l'interesse del minore è, nei due casi, differente. E non raggiunge, pertanto, il livello della irragionevolezza manifesta la circostanza che il bilanciamento tra tali distinte esigenze e l'interesse del minore fornisca esiti non coincidenti. ( Precedenti citati: sentenza n. 25 del 1979 e ordinanza n. 145 del 2009, sulle ben diverse funzioni della pena e della custodia cautelare in carcere; ordinanza n. 532 del 2002, sulla finalità delle misure cautelari ). Secondo la giurisprudenza costituzionale, le disposizioni in materia cautelare finalizzate alla tutela dell'interesse dei minori figli di genitori imputati non costituiscono idonei tertia comparationis rispetto a quelle analoghe dettate dall'ordinamento penitenziario per i genitori ristretti a seguito di condanna. Né sono assimilabili, ai fini di uno scrutinio di eguaglianza, status fra loro eterogenei, come quello dell'imputato sottoposto ad una misura cautelare personale, da una parte, e quello del condannato in fase di esecuzione della pena, dall'altra. ( Precedente citato: ordinanza n. 260 del 2009 ).
Sono restituiti al rimettente gli atti relativi alla questione di legittimità costituzionale dell'art. 275, comma 3, secondo periodo, cod. proc. pen. (come modificato dall'art. 2 del d.l. 23 febbraio 2009, n. 11, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38), impugnato, in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost., nella parte in cui - nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti (art. 260 del d.lgs. n. 152 del 2006), è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non fa salva, altresì, l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. Infatti, successivamente alle ordinanze di rimessione, l'art. 4, comma 1, della legge n. 47 del 2015 ha modificato la norma censurata in senso pienamente conforme al petitum del giudice a quo , limitando la presunzione assoluta di adeguatezza esclusiva della custodia carceraria a soddisfare le esigenze cautelari ai soli delitti di cui agli artt. 270, 270- bis e 416- bis cod. pen. e prevedendo per altri delitti, ivi compreso quello contemplato dall'art. 260 del d.lgs. n. 152 del 2006, una presunzione relativa in base alla quale alla persona gravemente indiziata è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari o che, in relazione al caso concreto, le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. Pertanto, alla luce del mutato quadro normativo, compete al rimettente una nuova valutazione in ordine alla rilevanza e alla non manifesta infondatezza della questione. In senso analogo, v. la citata ordinanza n. 190/2015.
Sono restituiti al rimettente gli atti relativi alla questione di legittimità costituzionale dell'art. 275, comma 3, cod. proc. pen., come modificato dall'art. 2, comma 1, lett. a ) e a- bis ), del d.l. n. 11 del 2009, convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge n. 38 del 2009, impugnato, in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost., nella parte in cui - nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all'art. 416, sesto comma, cod. pen., è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non fa salva, altresì, l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. Infatti, successivamente all'ordinanza di rimessione è stata approvata una disposizione (art. 4, comma 1, legge n. 47 del 2015) che modifica l'art. 275, comma 3, cod. proc. pen., eliminando il vulnus costituzionale censurato dal giudice rimettente. A fronte di questo ius superveniens , spetta al giudice rimettente la la valutazione circa la perdurante rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione sollevata. - Per la restituzione degli atti al giudice a quo per una nuova valutazione della questione alla luce del mutato quadro normativo, v. le citate ordinanze nn. 53/2015 e 20/2015.