Articolo 309 - CODICE PROCEDURA PENALE
Massime della Corte Costituzionale
Testo dell'articolo aggiornato secondo le disposizioni legislative vigenti.
Testo dell'articolo aggiornato secondo le disposizioni legislative vigenti.
Benché le ordinanze di rimessione facciano ripetuti riferimenti in motivazione ad altri procedimenti in materia di misure cautelari, il dispositivo e le premesse delle ordinanze stesse rendono palese che le questioni sollevate dal Tribunale di Lecce riguardano solo il procedimento di riesame delle misure cautelari coercitive, regolato dall'art. 309 cod. proc. pen., e segnatamente la previsione dello svolgimento di esso in camera di consiglio senza la presenza del pubblico, ai sensi degli artt. 309, comma 8, e 127, comma 6, cod. proc. pen.
Non è accolta l'eccezione di inammissibilità, per difetto di rilevanza, delle questioni incidentali di legittimità costituzionale degli artt. 309, comma 8, e 127, comma 6, cod. proc. pen. È quanto meno non implausibile la tesi del rimettente secondo cui la richiesta di udienza pubblica - dalla cui presentazione dipende la rilevanza - non è atto personale dell'imputato e può dunque promanare, ai sensi dell'art. 99 cod. proc. pen., anche dal difensore, come è avvenuto nei procedimenti a quibus. ( Precedente citato: sentenza n. 214 del 2013, secondo cui l'avvenuta presentazione della richiesta di udienza pubblica da parte dell'interessato è condizione di rilevanza attuale delle questioni di costituzionalità delle norme che escludono il giudizio in forma pubblica ).
È dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale - sollevata dal Tribunale di Lecce in riferimento all'art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 6, par. 1, CEDU - degli artt. 309, comma 8, e 127, comma 6, cod. proc. pen., nella parte in cui non consentono che il procedimento per il riesame delle misure cautelari [coercitive] si svolga, su richiesta dell'indagato o del ricorrente, nelle forme della pubblica udienza. La "norma interposta" ricavabile dalla CEDU, destinata ad integrare il parametro costituzionale evocato, è di segno diverso da quello ipotizzato dal rimettente, in quanto - secondo la giurisprudenza della Corte di Strasburgo specificamente attinente al procedimento di verifica della legittimità della detenzione ante iudicium della persona indiziata di un reato - la Convenzione non esige, in via di principio, che le relative udienze siano aperte al pubblico. In particolare, l'art. 5, par. 4, CEDU - il quale, prevedendo specifiche garanzie procedurali per le questioni in materia di privazione della libertà, si pone come lex specialis rispetto all'art. 6, par. 1, CEDU - richiede un'udienza per il riesame della legalità della carcerazione preventiva, ma non impone, come regola generale, che detta udienza sia pubblica (pur senza escluderne l'esigenza in determinate circostanze), e ciò in quanto il requisito della pubblicità non rientra nel "nocciolo duro" delle garanzie inerenti alla nozione di "equità", nello specifico contesto dei procedimenti in materia di detenzione. ( Precedenti citati: sentenze n. 93 del 2010, n. 135 del 2014, n. 97 del 2015 e n. 109 del 2015, che - in linea con le indicazioni della Corte di Strasburgo o in estensione di esse - hanno introdotto la facoltà degli interessati di chiedere lo svolgimento nelle forme dell'udienza pubblica del procedimento per l'applicazione di misure di prevenzione, del procedimento per l'applicazione di misure di sicurezza, del procedimento davanti al tribunale di sorveglianza nelle materie di sua competenza e del procedimento di opposizione contro l'ordinanza in materia di applicazione della confisca in sede esecutiva ). Le norme della CEDU - nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, specificamente istituita per dare ad esse interpretazione e applicazione - integrano, quali norme interposte, l'art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui tale parametro costituzionale impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali. ( Precedenti citati: sentenze n. 49 del 2015, n. 349 del 2007 e n. 348 del 2007 ).
È dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale - sollevata dal Tribunale di Lecce in riferimento all'art. 111, primo comma, Cost. - degli artt. 309, comma 8, e 127, comma 6, cod. proc. pen., nella parte in cui non consentono che il procedimento per il riesame delle misure cautelari [coercitive] si svolga, su richiesta dell'indagato o del ricorrente, nelle forme della pubblica udienza. Posto che la norma costituzionale sul "giusto processo" non impone in modo indefettibile la pubblicità di ogni tipo di procedimento giudiziario e di ogni fase di esso, la scelta di escludere la pubblicità delle udienze di riesame costituisce frutto di un ragionevole esercizio della discrezionalità che al legislatore compete in materia. Il riesame costituisce, infatti, un procedimento incidentale non inerente al merito della pretesa punitiva e preminentemente cartolare, che si inserisce in un impianto processuale più ampio, entro il quale il principio di pubblicità trova il suo "naturale" sbocco, satisfattivo della relativa esigenza costituzionale, nella fase dibattimentale. Inoltre, ove esperito (come nei casi oggetto dei giudizi a quibus) nel corso della fase delle indagini preliminari, il procedimento di riesame pone anche problemi di tutela della segretezza cosiddetta esterna degli atti di indagine. ( Precedenti citati: sentenza n. 80 del 2011, sull'esigenza di controllo diretto del pubblico soprattutto sulle attività di acquisizione della prova orale-rappresentativa; sentenze n. 135 del 2014 e n. 93 del 2010, secondo cui l'idoneità del procedimento a incidere in modo definitivo su beni dell'individuo conferisce specifico risalto alle esigenze cui è preordinato il principio di pubblicità delle udienze. )
È dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale - sollevata dal Tribunale di Lecce in riferimento all'art. 3 Cost. - degli artt. 309, comma 8, e 127, comma 6, cod. proc. pen., nella parte in cui non consentono che il procedimento per il riesame delle misure cautelari [coercitive] si svolga, su richiesta dell'indagato o del ricorrente, nelle forme della pubblica udienza. Non sussiste irragionevole disparità di trattamento dei soggetti coinvolti nel procedimento di riesame, rispetto a quelli coinvolti nei procedimenti per l'applicazione di misure di prevenzione e di misure di sicurezza, poiché - diversamente dal primo - quelli evocati a tertia comparationis sono procedimenti autonomi, nei quali il giudice di merito è chiamato ad esprimere, all'esito di un'attività di acquisizione probatoria e senza particolari esigenze di speditezza, giudizi definitivi in ordine al thema decidendum, né vi è altra sede nella quale il controllo diretto del pubblico sull'amministrazione della giustizia può trovare attuazione. Ancora più evidente è la disomogeneità - quanto all'esigenza di rispetto del principio di pubblicità - del procedimento di riesame rispetto al giudizio abbreviato e al giudizio ordinario, nei quali, a differenza che nel primo, si discute della decisione sul merito dell'accusa penale, sede elettiva di esplicazione del principio di pubblicità.
Non è accolta l'eccezione di inammissibilità - per carente descrizione della fattispecie e conseguente difetto di motivazione sulla rilevanza - della questione incidentale di legittimità costituzionale dell'art. 309, comma 10, cod. proc. pen., nella parte in cui impedisce la rinnovazione delle misure coercitive diverse dalla custodia cautelare in carcere, salvo eccezionali esigenze cautelari specificamente motivate. L'ordinanza di rimessione chiarisce in termini sintetici, ma sufficienti, la situazione processuale all'esame del rimettente e le ragioni che impongono l'applicazione della norma censurata, precisando, tra l'altro, che nella specie non vi erano concreti elementi idonei a costituire le eccezionali esigenze cautelari richieste per la rinnovazione della misura non carceraria.
È dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale - sollevata dal GIP del Tribunale di Nola in riferimento agli artt. 3, 101, secondo comma, e 104, primo comma, Cost. - dell'art. 309, comma 10, cod. proc. pen., come sostituito dall'art. 11, comma 5, della legge n. 47 del 2015, «nella parte in cui prevede che l'ordinanza che dispone una misura coercitiva - diversa dalla custodia in carcere - che abbia perso efficacia non possa essere reiterata salve eccezionali esigenze cautelari specificamente motivate». Il requisito della eccezionalità delle esigenze cautelari - cui la norma censurata condiziona la reiterabilità delle misure coercitive divenute inefficaci per inosservanza di termini del procedimento di riesame - non è ravvisabile solo quando viene applicata la custodia in carcere, ma è compatibile con l'applicazione di misure meno afflittive, dal momento che la scelta della misura deve avvenire considerando, oltre al "grado", la natura delle esigenze cautelari (art. 275, comma 1, cod. proc. pen.), la quale può giustificare l'adozione di una misura non carceraria, o perché lo impone la pena comminata per il reato (inferiore nel massimo a cinque anni), o perché l'esistenza di una situazione pur eccezionale di pericolo può - e, in base al principio di adeguatezza, deve - essere contrastata con la misura che comporti, per chi la subisce, il minor sacrificio necessario per fronteggiare i pericula libertatis . Il legislatore - impedendo che l'ordinanza divenuta inefficace possa essere semplicisticamente «rinnovata», cioè riemessa con la stessa motivazione, come avveniva nelle prassi distorsive del passato - ha contemperato in modo non irragionevole l'esigenza di difesa sociale e quella di non frustrare le garanzie della persona raggiunta dal provvedimento coercitivo. Non è ravvisabile disparità di trattamento rispetto ai casi previsti dagli artt. 302 cod. proc. pen., 13, comma 3, della legge n. 69 del 2005, e 27 cod. proc. pen., poiché, a differenza di queste, la norma censurata è diretta a evitare che l'esito del riesame, favorevole all'interessato, sia frustrato dalla reiterazione del provvedimento cautelare caducato e dalla necessità di promuovere un nuovo procedimento identico al precedente. Neppure sussiste disparità di trattamento tra coindagati, poiché il mancato rispetto per alcuni soltanto delle cadenze temporali stabilite dall'art. 309 cod. proc. pen. differenzia la loro vicenda cautelare da quella degli altri. Né, infine, sono violati gli artt. 101, secondo comma, e 104, primo comma, Cost., ben potendo la legge ricollegare particolari effetti ad accadimenti processuali sottratti al totale controllo dell'autorità giudiziaria (come la tempestività e la regolarità del sub-procedimento di notificazione all'indagato), senza che ciò menomi la posizione del giudice o incida sulla sua indipendenza e autonomia.
Sono inammissibili, per difetto di rilevanza, le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 292, commi 1 e 2, lett. c ), e 309, comma 9, cod. proc. pen., impugnati, in riferimento agli artt. 3, 13, secondo comma, 24, 111, secondo e sesto comma, Cost., nella parte in cui escludono la nullità dell'ordinanza cautelare e consentono al Tribunale del riesame di integrare una motivazione sulla gravità indiziaria integralmente coincidente con la comunicazione di reato della polizia giudiziaria, recepita per relationem. I giudici rimettenti, quali giudici di rinvio, non devono più fare applicazione delle disposizioni censurate, avendo la Corte di cassazione escluso in via definitiva la nullità delle ordinanze cautelari per difetto di motivazione. Il caso in esame è, dunque, diverso da quello nel quale la Cassazione afferma nella sentenza di annullamento un principio di diritto relativo ad una norma che deve trovare ulteriore applicazione nel giudizio di rinvio e il giudice è legittimato a sollevare questione di legittimità costituzionale della regola iuris così stabilita e vincolante in forza dell'art. 627, comma 3, cod. proc. pen. La questione proposta si traduce pertanto in una non consentita richiesta di pronunciare una sorta di "revisione in grado ulteriore" della sentenza della Cassazione. - Sulla legittimazione del giudice del rinvio a sollevare questione di legittimità costituzionale della norma nell'interpretazione risultante dal principio di diritto enunciato dalla Corte di cassazione, v. le citate sentenze nn. 293/2013, 204/2012 e 197/2010. - In riferimento ad una censura analoga, comportante l'attribuzione alla Corte costituzionale di un compito di "revisione in grado ulteriore" delle sentenze della Corte di cassazione, v. la citata sentenza n. 294/1995.
È costituzionalmente illegittimo, per violazione dell'art. 3, comma 1, l'art. 309 cod. proc. pen., in quanto interpretato nel senso che la deducibilità, nel procedimento di riesame, della retrodatazione della decorrenza dei termini di durata massima delle misure cautelari, prevista dall'art. 297, comma 3, del medesimo codice, sia subordinata - oltre che alla condizione che, per effetto della retrodatazione, il termine sia già scaduto al momento dell'emissione dell'ordinanza cautelare impugnata - anche a quella che tutti gli elementi per la retrodatazione risultino da detta ordinanza. L'interpretazione di detta disposizione è frutto di un intervento delle Sezioni unite della Corte di cassazione - vincolante per il giudice a quo in quanto giudice del rinvio - in sede di composizione di un contrasto giurisprudenziale verificatosi all'interno della Corte stessa, a partire dal 2010, quando all'indirizzo tradizionale - secondo cui la giurisprudenza di legittimità unanimemente riteneva che la verifica delle condizioni per la retrodatazione esulasse dalla cognizione del giudice investito del procedimento incidentale di riesame delle ordinanze che dispongono misure coercitive - si è opposto un orientamento di diverso segno, secondo il quale la retrodatazione sarebbe deducibile in sede di riesame, quantomeno allorché, per effetto di essa, i termini massimi risultino già spirati alla data di adozione dell'ordinanza impugnata. Nel risolvere il contrasto le Sezioni unite penali hanno enunciato il principio di diritto per cui, «nel caso di contestazione a catena, la questione della retrodatazione della decorrenza del termine di custodia cautelare può essere dedotta anche in sede di riesame solo se ricorrono congiuntamente le seguenti condizioni: a) se per effetto della retrodatazione il termine sia interamente scaduto al momento della emissione del secondo provvedimento cautelare; b) se tutti gli elementi per la retrodatazione risultino dall'ordinanza cautelare». In questa prospettiva, la regula iuris censurata, relativa alla sola seconda condizione limitativa, si presta, peraltro, a determinare disparità di trattamento tra soggetti che versano in situazioni identiche in correlazione a fattori puramente accidentali, avulsi dalla ratio degli istituti che vengono in rilievo. A parità di situazione, infatti, la fruibilità del riesame ai fini considerati finisce per dipendere dall'ampiezza e dalla puntualità delle indicazioni contenute nella motivazione del provvedimento coercitivo che il soggetto in vinculis intende contestare. Ne consegue che il livello della tutela viene ad essere determinato, in definitiva, dal maggiore o minore scrupolo con il quale il giudice della cautela assolve all'onere di motivare l'ordinanza restrittiva e, prima ancora, dal fatto che egli sia o non sia a conoscenza degli elementi che impongono la retrodatazione. Tale assetto non può essere giustificato, sul piano del rispetto dell'art. 3, primo comma, Cost., con le considerazioni addotte a sostegno della soluzione ermeneutica di cui si discute, ossia: 1) con la difficile "gestibilità" di una tematica complessa, quale quella delle "contestazioni a catena", da parte di un giudice - il tribunale del riesame - costretto a decidere in tempi brevissimi e senza fruire di poteri istruttori, per di più nell'ambito di una procedura a contradditorio solo eventuale; 2) con il conseguente elevato rischio della formazione di giudicati cautelari fallaci. D'altro canto, il carattere solo eventuale del contraddittorio, proprio del procedimento di riesame appare inconferente ai fini che qui interessano. Il pubblico ministero che tema prospettazioni infondate della difesa in punto di "contestazioni a catena" può - pur senza esservi tenuto - comunque intervenire in udienza per contrastarle o far pervenire memorie, allo stesso modo di quanto avviene per qualsiasi altra deduzione dell'indagato intesa a contestare la legittimità della misura applicata. Infine, si deve osservare come, in base alla regula iuris in discussione, non basti neppure - per legittimare l'intervento del tribunale del riesame - che la sussistenza di una "contestazione a catena" risulti «evidente», ma occorra che la dimostrazione piena e inconfutabile dell'inefficacia originaria del titolo cautelare promani da una singola e specifica fonte documentale, rappresentata dallo stesso provvedimento impugnato. (Sono assorbiti tutti gli altri profili di censura).
E' manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale sollevata, in riferimento agli artt. 3, 13 e 24 Cost., nei confronti dell'art. 309, commi 5 e 10, cod. proc. pen., nella parte in cui, riguardo alla procedura del riesame, da parte del Tribunale delle liberta', delle ordinanze che dispongono una misura coercitiva, in caso di non sollecita e puntuale esecuzione, da parte del Presidente del Tribunale , del prescritto "immediato avviso" della avvenuta presentazione della richiesta di riesame, all'autorita' procedente, non prevedono la perdita di efficacia dell'adottata misura. L'interpretazione delle disposizioni impugnate - secondo cui il termine perentorio di cinque giorni per la trasmissione degli atti, da parte dell'autorita' procedente, al tribunale del riesame, decorre non gia' (come presupposto dal giudice 'a quo') dal momento in cui l'avviso giunge all'autorita' procedente, ma dal momento in cui la richiesta di riesame perviene alla cancelleria del tribunale, e l'"immediato avviso" si colloca, di conseguenza, all'interno del termine - in base alla quale - ritenendola l'unica possibile adeguata ai principi costituzionali - la Corte costituzionale (con sentenza n. 232 del 1998) ha dichiarato non fondata "nei sensi di cui in motivazione" identica questione, ma dalla quale peraltro - giudicandola a sua volta in contrasto con il tenore della norma - il giudice 'a quo' ritiene di doversi discostare, risulta infatti condivisa, e ribadita, anche nella sentenza - successiva alle ordinanze con cui e' stato promosso il presente giudizio - 18 gennaio 1999, n. 25, delle Sezioni unite della Corte di cassazione, e non puo', quindi, allo stato, non essere confermata. - Nello stesso senso, su identica questione, anch'essa proposta prima della su citata sentenza delle Sezioni unite, O. nn. 269/1999 e 445/1999.