Articolo 39 - COSTITUZIONE
Massime della Corte Costituzionale
Testo dell'articolo aggiornato secondo le disposizioni legislative vigenti.
Testo dell'articolo aggiornato secondo le disposizioni legislative vigenti.
Nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 12, comma 3, e 13, comma 1, della legge reg. Veneto n. 37 del 2014, rispettivamente modificati dall'art. 57, commi 3 e 4, della legge reg. Veneto n. 6 del 2015, non è accolta l'eccezione di inammissibilità, formulata perché la violazione della libertà sindacale di cui all'art. 39 Cost. sarebbe meramente eventuale. La censura formulata dal rimettente risulta chiara nel ritenere che le norme censurate, prevedendo la contemporanea applicazione al rapporto di lavoro dei dipendenti dell'Agenzia veneta per l'innovazione nel settore primario (AVISP) di due diverse tipologie di contratti collettivi nazionali di lavoro determina, comunque, la lesione del parametro evocato.
Accolta, per violazione dell'art. 117, secondo comma, lett. l ), Cost., la questione di legittimità costituzionale degli artt. 12, comma 3, e 13, comma 1, della legge reg. Veneto n. 37 del 2014, rispettivamente, modificati dall'art. 57, commi 3 e 4, della legge reg. Veneto n. 6 del 2015, restano assorbite le ulteriori questioni, riferite agli artt. 39 e 97, secondo comma, Cost.
Non sono fondate le questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 36, primo comma, e 39, primo comma, Cost., degli artt. 9, commi 1, 2- bis , 17, primo periodo, e 21, ultimo periodo, del d.l. 31 maggio 2010, n. 78 (convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 30 luglio 2010, n. 122), che prevedono la preclusione di ogni incremento dei trattamenti economici complessivi dei singoli dipendenti pubblici per gli anni 2011, 2012, 2013, di ogni efficacia economica delle progressioni di carriera e di ogni incremento dell'ammontare complessivo delle risorse destinate annualmente al trattamento accessorio, nonché la sospensione delle procedure contrattuali e negoziali per il triennio 2010-2012. La natura pluriennale delle tornate contrattuali è speculare alla natura parimenti pluriennale delle manovre di bilancio e palesa la spiccata dimensione programmatica della contrattazione collettiva, sia per la parte normativa che per quella economica. Spetta alla legge di stabilità indicare, per ciascuno degli anni compresi nel bilancio pluriennale, l'importo complessivo massimo destinato al rinnovo dei contratti del pubblico impiego (art. 11, comma 3, lett. g ), della legge n. 196 del 2009). La ragionevolezza delle misure censurate di carattere generale discende, oltre che dalla particolare gravità della situazione economica e finanziaria, concomitante con l'intervento normativo, discende dal loro inserimento in un disegno organico improntato a una dimensione programmatica, scandita secondo un periodo triennale, e rispondente ad un'esigenza di governare una voce rilevante della spesa pubblica, che aveva registrato una crescita incontrollata, sopravanzando l'incremento delle retribuzioni del settore privato. Pertanto, il sacrificio del diritto alla retribuzione commisurata al lavoro svolto e del diritto di accedere alla contrattazione collettiva non è né irragionevole né sproporzionato. - Sulla necessaria non sovrapponibilità del petitum del giudizio a quo rispetto all'oggetto del giudizio di legittimità costituzionale, v. la citata sentenza n. 84/2006. - Per il rigetto di questioni aventi ad oggetto le misure di contenimento della spesa del pubblico impiego previste dall'art. 7, comma 3, del d.l. n. 384 del 1992, v. la citata sentenza n. 245/1997 e la citata ordinanza n. 299/1999. - Sulla legittimità di vincoli legati all'autonomia collettiva, v. la citata sentenza n. 124/1991. - Per l'affermazione che l'interesse collettivo al contenimento della spesa pubblica deve essere adeguatamente ponderato in un contesto di progressivo deterioramento degli equilibri della finanza pubblica, v. la citata sentenza n. 361/1996. - Sull'assetto normativo delineato dall'art. 9 del d.l. n. 78 del 2010, v. le citate sentenze nn. 219/2014 e 310/2013. - Sulla sospensione della contrattazione collettiva nel triennio 2010-2012, v. la citata sentenza n. 189/2012.
È costituzionalmente illegittimo, nei termini indicati in motivazione e a decorrere dal giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, il regime di sospensione della contrattazione collettiva nel pubblico impiego per il periodo 2010-2014, risultante dagli artt. 16, comma 1, lettera b ), del d.l. 6 luglio 2011, n. 98 (convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111), come specificato dall'art. 1, comma 1, lettera c ), primo periodo, del d.P.R. 4 settembre 2013, n. 122; 1, comma 453, della legge 27 dicembre 2013, n. 147; 1, comma 254, della legge 23 dicembre 2014, n. 190. Le norme impugnate dai giudici rimettenti e le norme sopravvenute della legge di stabilità per il 2015, susseguitesi senza soluzione di continuità e accomunate da analoga direzione finalistica, violano la libertà sindacale garantita dall'art. 39, primo comma, Cost. La predetta scansione temporale preclude considerazione atomistica della sospensione della contrattazione economica per il periodo 2013-2014, avulsa dalla successiva proroga. Il "blocco", quindi, così come emerge da tutte le disposizioni che ne definiscono la durata complessiva, deve essere colto in una prospettiva unitaria. L'estensione fino al 2015 delle misure che inibiscono la contrattazione economica e che, già per il 2013-2014, erano state definite eccezionali, svela la vocazione strutturale del regime di proroghe, di per sé lesivo della libertà sindacale. Il reiterato protrarsi del blocco delle procedure di contrattazione economica altera la dinamica negoziale in un settore nel quale il contratto collettivo svolge un ruolo centrale, ponendosi, per un verso, come strumento di garanzia della parità di trattamento dei lavoratori, e, per altro verso, come fattore propulsivo della produttività e del merito. Se i periodi di sospensione delle procedure "negoziali e contrattuali" non possono essere ancorati al rigido termine di un anno, individuato dalla giurisprudenza costituzionale in relazione a misure diverse e a un diverso contesto di emergenza, è parimenti innegabile che essi debbano essere comunque definiti e non possano essere protratti ad libitum . Il carattere ormai sistematico di tale sospensione sconfina, dunque, in un bilanciamento irragionevole tra libertà sindacale - indissolubilmente connessa con altri valori di rilievo costituzionale e già vincolata da limiti normativi e da controlli contabili penetranti (artt. 47 e 48 del d.lgs. n. 165 del 2001) - ed esigenze di razionale distribuzione delle risorse e controllo della spesa, all'interno di una coerente programmazione finanziaria. L'affiorare della natura strutturale della sospensione della contrattazione ha reso non più tollerabile il sacrificio del diritto fondamentale tutelato dall'art. 39 Cost. e ha determinato la sopravvenuta illegittimità costituzionale della normativa de qua. Rimossi in tal modo i limiti che si frappongono allo svolgimento delle procedure riguardanti la parte economica, sarà compito del legislatore, senza obbligo di risultato, dare nuovo impulso all'ordinaria dialettica contrattuale, nel rispetto dei vincoli di spesa. Per il periodo già trascorso restano impregiudicati gli effetti economici derivanti dalla disciplina censurata. - Sulla necessaria non sovrapponibilità del petitum del giudizio a quo rispetto all'oggetto del giudizio di legittimità costituzionale, v. la citata sentenza n. 84/2006. - Sulla liberta sindacale nella sua duplice valenza individuale e collettiva, v., ex plurimis , le citate sentenze nn. 697/1988 e 34/1985. - Sul ruolo del contratto collettivo nel settore del pubblico impiego, v. la citata sentenza n. 309/1997. - Sulle misure di blocco stipendiale nel pubblico impiego, v. la citata sentenza n. 245/1997 e la citata ordinanza n. 299/1999.
Non è fondata, per erroneità del presupposto interpretativo, la questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento all'art. 39 Cost., dell'art. 7, comma 4, del d.l. 31 dicembre 2007, n. 248, convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 28 febbraio 2008, n. 31, nella parte in cui stabilisce che «Fino alla completa attuazione della normativa in materia di socio lavoratore di società cooperative, in presenza di un pluralità di contratti collettivi della medesima categoria, le società cooperative che svolgono attività ricomprese nell'ambito di applicazione di quei contratti di categoria applicano ai propri soci lavoratori, ai sensi dell'articolo 3, comma 1, della legge 3 aprile 2001, n. 142, i trattamenti economici complessivi non inferiori a quelli dettati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria». La disposizione censurata, lungi dall'assegnare ai predetti contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, efficacia erga omnes , in contrasto con quanto statuito dall'art. 39 Cost., mediante un recepimento normativo degli stessi, richiama i predetti contratti, e più precisamente i trattamenti economici complessivi minimi ivi previsti, quale parametro esterno di commisurazione, da parte del giudice, nel definire la proporzionalità e la sufficienza del trattamento economico da corrispondere al socio lavoratore, ai sensi dell'art. 36 Cost. - Per l'affermazione che «per aversi una questione di legittimità validamente posta, è sufficiente che il giudice a quo fornisca un'interpretazione non implausibile della disposizione contestata che, per una valutazione compiuta in una fase meramente iniziale del processo, egli ritenga di dover applicare nel giudizio principale e su cui nutra dubbi non arbitrari di conformità a determinate norme costituzionali », v. fra le tante, la citata sentenza n. 463/1994. - Sulla motivazione per relationem della non manifesta infondatezza v., da ultimo, le citate sentenze nn. 328/2011, 234/2011. - Sulla finalità perseguita dall'art. 7, comma 4, del d.l. n. 248 del 2007, connesso all'art. 3, comma 1, della legge n. 142 del 2001, di garantire l'estensione dei minimi di trattamento economico (cosiddetto minimale retributivo) agli appartenenti ad una determinata categoria, assicurando la parità di trattamento tra i datori di lavoro e tra i lavoratori», v. la citata sentenza n. 59/2013.
Non sono fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 9, comma 23, del d.l. 31 maggio 2010, n. 78, convertito con modificazioni dalla legge 30 luglio 2010, n. 122 - sollevate in riferimento agli artt. 2, 3, 35, 36, 39, 42, 53, 97, Cost. - il quale prevede che, per il personale docente, amministrativo, tecnico ed ausiliario della scuola, gli anni 2010, 2011, 2012 non sono utili ai fini della maturazione delle posizioni stipendiali e dei relativi incrementi economici previsti dalle disposizioni contrattuali vigenti. In primo luogo, la disposizione censurata, non dando luogo ad una prestazione patrimoniale imposta, realizzata attraverso un atto autoritativo di carattere ablatorio, destinata a reperire risorse per l'erario, non presenta i caratteri indefettibili della fattispecie tributaria. Non è ravvisabile neppure una lesione degli artt. 42 e 97, Cost., in quanto la disposizione non ha carattere provvedimentale, poiché non è destinata ad incidere su un numero determinato e molto limitato di destinatari, né ha un contenuto particolare e concreto. Inoltre, non risultano violati gli artt. 2 e 3 Cost. perché l'intervento in esame è giustificato, nel suo complesso, dalle notorie esigenze di contenimento della spesa pubblica, in presenza del carattere eccezionale, transeunte, non arbitrario, consentaneo allo scopo prefissato, nonché temporalmente limitato dei sacrifici richiesti. Non è leso neppure l'affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica, in quanto le disposizioni censurate, pur incidendo sulla disciplina dei rapporti di durata, non sono caratterizzate da irrazionalità. Non si ravvisa, infine, una violazione degli artt. 35, 36 e 39, complessivamente considerati, in quanto la fissazione del limite agli incrementi economici definisce il confine entro il quale può svolgersi l'attività negoziale delle parti, dovendosi svolgere la contrattazione collettiva entro limiti generali di compatibilità con le finanze pubbliche legittimamente determinati dal legislatore. - Sulla natura di principio di coordinamento della finanza pubblica dell'art. 9, comma 21, del d.l. 31 maggio 2010, n. 78, v. la citata sentenza n. 181/2014. - Sulla non fondatezza di talune questioni di legittimità costituzionale sollevate sull'art. 9, comma 21, del d.l. n. 78 del 2010, v. le citate sentenze nn. 154/2014, 310/2013 e 304/2013. - Sugli elementi indefettibili della fattispecie tributaria, v. le citate sentenze nn. 310/2013 e 223/2012. - Sulla giustificazione di taluni interventi per le esigenze di contenimento della spesa pubblica, v. le citate sentenze nn. 310/2013, 166/2012, 302/2010, 236/2009 e 206/2009. - Sulla lesione dell'affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica , con riguardo a disposizioni che modifichino in senso sfavorevole la disciplina dei rapporti di durata, anche se l'oggetto di questi sia costituito da diritti soggettivi perfetti, v. la citata sentenza n. 310/2013. - Sulla impossibilità di svolgere un giudizio sulla conformità all'art. 36, Cost., per singoli istituti, né giorno per giorno, v. le citate sentenze nn. 310/2013, 304/2013, 366/2006 e 287/2006. - Sulla necessità che i sacrifici dovuti alla situazione di crisi economica interessino periodi più lunghi rispetto a quelli considerati nella giurisprudenza costituzionale relativa alla manovra economica del 1992, v. la citata sentenza n. 310/2013. - Sul rapporto di lavoro pubblico privatizzato, disciplinato in sede di contrattazione collettiva, v. le citate sentenze nn. 36/2013 e 290/2012. - Sulla compressione dell'autonomia collettiva, v. le citate sentenze nn. 40/2007, 393/2000, 143/1998, 124/1991 e 34/1985.
E' manifestamente inammissibile, per sopravvenuta carenza di oggetto, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 19, primo comma, lett. b ), della legge 20 maggio 1970, n. 300, impugnato, in riferimento agli artt. 3 e 39 Cost., nella parte in cui non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale possa essere costituita anche nell'ambito di associazioni sindacali che, pur non firmatarie dei contratti collettivi applicati nell'unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori dell'azienda. Infatti, successivamente all'ordinanza di rimessione, la sentenza n. 231 del 2013 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale in parte qua della norma censurata. - Per la declaratoria di illegittimità costituzionale in parte qua del censurato art. 19, primo comma, lett. b ), della legge n. 300 del 1970, v. la citata sentenza n. 231/2013.
È costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 2, 3 e 39 Cost. - l'art. 19, primo comma, lettera b), della legge 20 maggio 1970, n. 300, nella parte in cui non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale possa essere costituita anche nell'ambito di associazioni sindacali che, pur non firmatarie dei contratti collettivi applicati nell'unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori dell'azienda. Al suddetto risultato si perviene in quanto l'aporia indotta dalla esclusione dal godimento dei diritti in azienda del sindacato non firmatario di alcun contratto collettivo, ma dotato dell'effettivo consenso da parte dei lavoratori, che ne permette e al tempo stesso rende non eludibile l'accesso alle trattative, già in passato rilevata dalla giurisprudenza costituzionale, rappresenta un vulnus alla rappresentatività sostanziale del sindacato. Infatti, il dato sostanziale della rappresentatività non può essere eluso - né in eccesso né in difetto - da elementi meramente formali quali, da un lato, la sola formale sottoscrizione oppure, dall'altro, la sola mancata sottoscrizione del contratto (da parte di un sindacato che abbia partecipato alle relative trattative, grazie alla sua rappresentatività). Peraltro, con il presente intervento additivo, necessariamente operato nei limiti di rilevanza della questione sollevata, non è stato possibile affrontare il più generale problema della mancata attuazione complessiva dell'art. 39 Cost., né è stato individuato - e non sarebbe stato possibile farlo - un criterio selettivo della rappresentatività sindacale ai fini del riconoscimento della tutela privilegiata di cui al Titolo III dello Statuto dei lavoratori in azienda nel caso di mancanza di un contratto collettivo applicato nell'unità produttiva per carenza di attività negoziale ovvero per impossibilità di pervenire ad un accordo aziendale. Ad una tale evenienza può astrattamente darsi risposta attraverso una molteplicità di soluzioni, tra le quali compete al legislatore scegliere. - Decisioni che hanno esaminato l'art. 19 della legge n. 300 del 1970: sentenze n. 54 del 1974, n. 334 del 1988, n. 30 del 1990, n. 1 del 1994, n. 244 del 1996; ordinanze n. 345 del 1996, n. 148 del 1997 e n. 76 del 1998.
Sono manifestamente inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 5, comma 7, del d.l. 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini nonché misure di rafforzamento patrimoniale delle imprese del settore bancario), convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135 - che determinano il valore dei buoni pasto attribuiti al personale nella misura di 7 euro, prevedendo che i risparmi derivanti costituiscono economie di bilancio per le amministrazioni dello stato e concorrono per gli enti diversi dalle amministrazioni statali al miglioramento dei saldi di bilancio, e che tali somme non possono essere utilizzate per incrementare i fondi per la contrattazione integrativa -, impugnato dalla Regioni Sardegna con riferimento agli artt. 3, 39, 41 e 97 della Costituzione e al «principio dell'affidamento e della sicurezza giuridica», in quanto la ricorrente non ha fornito alcuna motivazione in ordine ai profili della possibile ridondanza della denunciata violazione sul riparto di competenze, sia con riferimento alla questione relativa alla asserita lesione dei principi di cui agli artt. 3 e 97, Cost., sia con riguardo a quella relativa agli artt. 39 e 41 Cost., sia, infine, con riferimento alla asserita lesione del non meglio individuato «principio dell'affidamento e della sicurezza giuridica»; né le denunciate violazioni di tali norme costituzionali ridondano in una lesione della sfera di attribuzioni legislative costituzionalmente garantite delle Regioni. - Sulla evocazione da parte delle Regioni di parametri di legittimità diversi da quelli che sovrintendono al riparto di attribuzioni, v. citate sentenze n. 20 del 2013, n. 199 del 2012, n. 98 del 2007 e n. 116 del 2006.
Dichiarazione di inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'articolo 7, comma 4, del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e disposizioni urgenti in materia finanziaria), convertito, con modificazioni, dall'articolo 1 della legge 28 febbraio 2008, n. 31, sollevata dal Tribunale di Lucca, in funzioni di giudice del lavoro. Infatti, il giudice remittente è incorso in errore nell'individuazione della norma denunciata (cosiddetta aberratio ictus ), avendo sottoposto a scrutinio una disposizione non pertinente rispetto all'oggetto delle censure e non conferente rispetto al thema decidendi demandato al suo esame ( ex plurimis : sentenze n. 241 del 2012 e n. 47 del 2008; ordinanze n. 180 e n. 120 del 2011 e n. 92 del 2009). Invero, i giudizi a quibus concernono opposizioni a cartelle esattoriali aventi ad oggetto i (maggiori) contributi previdenziali richiesti dall'INPS alle società cooperative opponenti, in relazione a rapporti lavorativi da tali società instaurati con propri soci lavoratori, in essi sono, dunque, in discussione i rapporti giuridici previdenziali tra le cooperative opponenti e l'INPS, ancorché l'imponibile contributivo risulti determinato nel quantum con riferimento all'ammontare retributivo spettante ai lavoratori, nel quadro dei rapporti di lavoro correnti tra questi ultimi e le società. La finalità, perseguita sia dall'impugnato art. 7, comma 4, del d.l. n. 248 del 2007 - e dall'art. 3, comma 1, della legge 3 aprile 2001, n. 142 che esso richiama - è quella di garantire l'estensione dei minimi di trattamento economico (cosiddetto minimale retributivo) agli appartenenti ad una determinata categoria, assicurando la parità di trattamento tra i datori di lavoro e tra i lavoratori. Invece, la normativa pertinente alla determinazione della retribuzione da assumere quale base di calcolo dei contributi previdenziali (e, quindi, nel quadro del rapporto previdenziale) si rinviene non già nella norma censurata, ma nell'art. 1, comma 1, del decreto-legge 9 ottobre 1989, n. 338, convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 7 dicembre 1989, n. 389, nonché nell'art. 2, comma 25, della legge 28 dicembre 1995, n. 549 e nell'art. 3, comma 4, del decreto legislativo 6 novembre 2001, n. 423 (Disposizioni in materia di contribuzione previdenziale ed assistenziale per i soci di cooperative, a norma dell'articolo 4, comma 3, della legge 3 aprile 2001, n. 142). Come il testuale tenore di tali ultime norme pone in luce, i rapporti previdenziali oggetto dei giudizi di cui alle ordinanze di rimessione trovano una disciplina specifica e distinta rispetto a quella dettata dall'art. 7, comma 4, qui censurata. In particolare, l'art. 2, comma 25, della legge n. 549 del 1995 (norma di interpretazione autentica dell'art. 1 del d.l. n. 338 del 1989) detta una regolamentazione parallela a quella recata dall'art. 7, comma 4, del d.l. n. 248 del 2007, in questa sede censurata. Tuttavia, gli ambiti di operatività delle due norme sono diversi. Infatti, la prima norma - nell'individuare la retribuzione imponibile a fini previdenziali o assistenziali, nel caso di pluralità di contratti intervenuti per la medesima categoria - attiene al rapporto previdenziale tra il datore di lavoro (società cooperativa) e l'ente previdenziale, cioè al rapporto oggetto dei giudizi a quibus , mentre il denunziato art. 7, comma 4, concerne il rapporto di lavoro tra società e socio lavoratore, con il relativo profilo retributivo, rapporto che non risulta in discussione nei detti giudizi. Ne consegue che data l'estraneità della norma censurata rispetto al thema decidendi demandato all'esame del remittente - soggetto invece alle disposizioni normative dianzi indicate - l'eventuale declaratoria d'illegittimità della disposizione impugnata non avrebbe alcuna incidenza sulla disciplina applicabile nei giudizi a quibus .