Articolo 447 - CODICE PROCEDURA PENALE
Massime della Corte Costituzionale
Testo dell'articolo aggiornato secondo le disposizioni legislative vigenti.
Testo dell'articolo aggiornato secondo le disposizioni legislative vigenti.
E' manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 447, comma 3, ultima parte, cod. proc. pen., sollevata in riferimento all'art. 3 Cost.. La questione, infatti, e' fondata su un presupposto interpretativo chiaramente errato, in quanto e' positivamente escluso dal principio codificato nell'art. 2, terzo comma, cod. pen., che il giudice possa accogliere la richiesta di applicazione della pena nei termini considerati dalle parti prima dell'abrogazione del trattamento sanzionatorio deteriore, poiche' in tal modo egli continuerebbe a dare applicazione ad una norma non piu' vigente: e quindi, fermo restando che il remittente non puo' che rigettare la richiesta di patteggiamento fondata su di una norma espulsa dall'ordinamento, rimane del tutto integra, per l'imputato, la possibilita' di riformulare la richiesta di applicazione della pena sulla base del vigente quadro normativo, fino al termine previsto dall'art. 446, comma 2, cod. proc. pen..
Come gia' affermato dalla Corte, nel procedimento di applicazione della pena su richiesta il controllo del giudice deve essere esercitato sulla congruita' della pena in concreto, quale indicata nella richiesta consensuale delle parti e non su quella astrattamente irrogabile in assenza della riduzione ("fino ad un terzo") prevista dal primo comma dell'art. 444. Tale controllo, evidentemente, non puo' non estendersi anche all'osservanza del principio di proporzione tra entita' della pena e gravita' dell'offesa, comprendendo quindi anche una valutazione sull'effettivo valore rieducativo della pena in relazione alla sua pregnante finalita'. - V. massime B e C.; v. S. n. 313/1990. red.: G. Conti
Questioni gia' dichiarate infondate. - V. massime A e C.; v. S. nn. 313/1990 e 116/1992. red.: G. Conti
Manifesta inammissibilita' della questione per difetto di rilevanza in quanto risulta che nel giudizio "a quo" la richiesta di patteggiamento non e' stata presentata durante le indagini preliminari, bensi' "in limine" al dibattimento. - V. massime A e B. red.: G. Conti
L'istituto dell'applicazione della pena su richiesta, anziche' comportare un accertamento pieno di responsabilita', basato sul contraddittorio tra le parti, trova il suo fondamento primario nell'accordo tra pubblico ministero ed imputato sul merito dell'imputazione, dal momento che chi chiede la pena pattuita rinuncia ad avvalersi della facolta' di contestare l'accusa. Tale caratteristica di "negozialita'" spiega il fatto che l'indagine del giudice in ordine alla responsabilita' dell'imputato possa essere limitata a profili determinati, senza investire quell'accertamento pieno e incondizionato sui fatti e sulle prove che rappresenta, nel rito ordinario, la premessa necessaria per l'applicazione della sanzione penale ed attenua quell'esigenza a favore della persona perseguita da un'accusa penale cui risulta collegato, nell'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, il requisito della pubblicita' dei processi e che proprio l'assenza della pubblicita' puo' talvolta rappresentare uno degli elementi incentivanti e premiali, atti a favorire tale la scelta dell'applicazione della pena non vengono collegati alcuni degli effetti tipici della condanna, quali il pagamento delle spese processuali o l'applicazione delle pene accessorie e delle misure di sicurezza. (Non fondatezza delle questione di legittimita' costituzionale, sollevata in riferimento all'art. 76 Cost. in relazione all'art. 2, primo comma, parte prima, e n. 45 legge 16 febbraio 1986, n. 81 e legge 4 agosto 1955, n. 848, degli artt. 447, 448 e 563 cod. proc. pen.). - V., in relazione al fondamento sull'accordo tra P.M. e imputato, la sent. n. 66/1990 e sulla rinuncia della facolta' a contestare l'accusa, la sent. n. 313/1991. - V., sul pagamento delle spese processuali della parte civile, la sent. n. 443/1990.
Il fatto che una stessa pena per uno stesso reato possa scaturire da processi dove l'elemento della pubblicita' risulti diversamente regolato rappresenta una mera eventualita' connessa alla diversificazione dei riti, ma in nessun caso puo' configurare una disparita' di trattamento imputabile agli enunciati della legge e suscettibile di riflettersi significativamente all'interno di una stessa categoria di giudicabili.
Manifesta inammissibilita' della questione per difetto di motivazione sulla rilevanza della stessa.
L'applicazione della pena su richiesta dell'imputato con il consenso del P.M. non viola il principio di riserva di giurisdizione, perche' detta riserva non puo' riguardare il pubblico ministero in quanto sotto la vigenza dell'attuale codice a questi e' stato chiaramente attribuito solo il ruolo e la qualita' di parte; ne', peraltro, detto procedimento viola il principio del giudice naturale, poiche' se l'imputato e' abilitato ad avanzare la richiesta della pena in ogni fase del procedimento fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento, e' pur sempre la legge che precostituisce il giudice competente ad applicare la sanzione richiesta nelle varie fasi del giudizio durante la pendenza del termine.
Questione gia' dichiarata non fondata. - S. n. 313/1990.