Articolo 49 - COSTITUZIONE
Massime della Corte Costituzionale
Testo dell'articolo aggiornato secondo le disposizioni legislative vigenti.
Testo dell'articolo aggiornato secondo le disposizioni legislative vigenti.
L'art. 67 Cost. spiega i propri effetti non solo sul rapporto fra elettori ed eletti, ma anche sulla relazione tra il singolo parlamentare e il partito e il gruppo parlamentare di appartenenza. Come in tutti quelli di derivazione liberale, anche nel nostro ordinamento costituzionale - che pure, all'art. 49 Cost., sottolinea il ruolo essenziale dei partiti per la determinazione della politica nazionale - la garanzia del libero mandato non consente l'instaurazione, in capo ai singoli parlamentari, di vincoli - da qualunque fonte derivino: legislativa, statutaria, negoziale - idonei a incidere giuridicamente sullo status del parlamentare e sulle modalità di svolgimento del mandato elettivo. Se può certamente accadere (e di regola accade) che, in riferimento all'esercizio del mandato, vengano di fatto stipulati accordi, impartite istruzioni o fatti valere vincoli di fedeltà, generalmente disciplinati da regole di matrice privatistica, attinenti alla normazione interna agli stessi partiti o gruppi parlamentari di riferimento, tuttavia, proprio in forza di quanto disposto dall'art. 67 Cost., tali accordi, istruzioni e vincoli non sono assistiti da alcuna garanzia giuridica, poiché la loro osservanza è rimessa alla coscienza del singolo parlamentare. Il significato della disposizione costituzionale non risiede, perciò, nel vietare, o nel rendere giuridicamente sanzionabile, l'adesione spontanea del parlamentare alle direttive del suo partito o del suo gruppo. La funzione di garanzia dell'art. 67 Cost. si rivela, invece, nei casi in cui gli accordi tra parlamentare e partito pretendano di tradursi in vincoli con effetto diretto sullo status del parlamentare o sulla libertà di esercizio del mandato. Il divieto del mandato imperativo importa che il parlamentare è libero di votare secondo gli indirizzi del suo partito ma è anche libero di sottrarsene; nessuna norma potrebbe legittimamente disporre che derivino conseguenze a carico del parlamentare per il fatto che egli abbia votato contro le direttive del partito. ( Precedente: S. 14/1964 - mass. 2064 ).
È dichiarato inammissibile il ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, promosso, in riferimento agli artt. 3, 48 e 49 Cost. e in relazione all'art. 3 Prot. addiz. CEDU, dall'Associazione "+Europa" nei confronti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, in relazione all'art. 1- bis , comma 5, del d.l. n. 26 del 2020, conv., con modif., nella legge n. 59 del 2020, che, in considerazione della situazione epidemiologica derivante dalla diffusione del COVID-19, riduce ad un terzo il numero minimo di sottoscrizioni richiesto per la presentazione delle liste e delle candidature alle elezioni delle Regioni a statuto ordinario dell'anno 2020. Il ricorrente è privo di legittimazione soggettiva, poiché ai partiti politici va negata la natura di potere dello Stato ai fini dell'art. 134 Cost. Secondo la giurisprudenza costituzionale, i partiti politici vanno considerati come organizzazioni proprie della società civile, alle quali sono attribuite dalle leggi ordinarie talune funzioni pubbliche, e non come poteri dello Stato ai fini dell'art. 134 Cost. Pertanto, ai partiti politici non è possibile riconoscere la natura di organi competenti a dichiarare definitivamente la volontà di un potere dello Stato per la delimitazione di una sfera di attribuzioni determinata da norme costituzionali. Né l'indubbia funzione di rappresentanza di interessi politicamente organizzati, svolta dai partiti politici, consente di riconoscere la legittimazione di questi ultimi quali poteri dello Stato. ( Precedenti citati: sentenza n. 1 del 2014; ordinanze n. 120 del 2009 e n. 79 del 2006 ).
Sono dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale - sollevate dalla sez. disciplinare del Consiglio superiore della magistratura in riferimento agli artt. 2, 3, 18, 49 e 98 Cost. - dell'art. 3, comma 1, lett. h), del d.lgs. n. 109 del 2006, nel testo sostituito dall'art. 1, comma 3, lett. d), n. 2), della legge n. 269 del 2006. La previsione, quale illecito disciplinare, dell'iscrizione o della partecipazione sistematica e continuativa a partiti politici anche per i magistrati fuori del ruolo organico perché collocati in aspettativa "per motivi elettorali", esprime il bilanciamento - demandato dalla Costituzione al legislatore - tra la libertà dei magistrati di associarsi in partiti, e l'esigenza di assicurarne l'indipendenza e l'imparzialità, anche davanti all'opinione pubblica, al fine di impedire i condizionamenti all'attività giudiziaria che potrebbero derivare dal legame stabile che i magistrati contrarrebbero iscrivendosi a un partito o partecipando in misura significativa alla sua attività. Né è irragionevole - tanto più in un contesto normativo che consente ai magistrati di tornare alla giurisdizione - mantenere separata la fattispecie disciplinare censurata dall'altra ipotesi, che la legge a determinate condizioni consente, di accesso dei magistrati alle cariche elettive e agli uffici pubblici di natura politica. Il magistrato, come qualunque cittadino, ben può infatti svolgere una campagna elettorale o compiere atti tipici del suo mandato od incarico politico senza necessariamente assumere, al contempo, tutti quei vincoli (a partire dallo stabile schieramento che l'iscrizione testimonia) che normalmente discendono dalla partecipazione organica alla vita di un partito politico. Il tenore della disposizione censurata consente al prudente apprezzamento del giudice disciplinare stabilire in concreto se la condotta del magistrato fuori ruolo possa legittimamente incontrare la vita di un partito, o se costituisca invece illecito disciplinare, meritando appropriata sanzione. ( Precedenti citati: sentenze n. 224 del 2009 e n. 172 del 1982 ). In linea generale, se i magistrati debbono godere degli stessi diritti di libertà garantiti ad ogni altro cittadino, le funzioni esercitate e la qualifica che rivestono non sono indifferenti e prive di effetto per l'ordinamento costituzionale, al fine di stabilire i limiti che possono essere opposti all'esercizio di quei diritti, che sono giustificati sia dalla particolare qualità e delicatezza delle funzioni giudiziarie, sia dai principi costituzionali di indipendenza e imparzialità (artt. 101, secondo comma, 104, primo comma, e 108, secondo comma, Cost.) che le caratterizzano, e che vanno tutelati non solo con specifico riferimento all'esercizio delle funzioni giudiziarie, ma anche quali criteri ispiratori di regole deontologiche da osservarsi in ogni comportamento di rilievo pubblico, al fine di evitare che dell'indipendenza e imparzialità dei magistrati i cittadini possano fondatamente dubitare. ( Precedenti citati: sentenze n. 224 del 2009 e n. 100 del 1981 ). Il cittadino-magistrato gode certamente dei diritti fondamentali di cui agli artt. 17, 18 e 21 Cost., il cui esercizio gli consente di manifestare legittimamente le proprie idee, anche di natura politica, a condizione però che ciò avvenga con l'equilibrio e la misura che non possono non caratterizzare ogni suo comportamento di rilevanza pubblica. ( Precedente citato: sentenza n. 224 del 2009 ). La rappresentanza politica, nella Costituzione repubblicana, è in principio rappresentanza attraverso i partiti politici, i quali, ai sensi dell'art. 49 Cost., sono le associazioni che consentono ai cittadini di concorrere, con metodo democratico, a determinare, anche attraverso la partecipazione alle elezioni, la politica nazionale. ( Precedente citato: sentenza n. 35 del 2017 ).
È dichiarato inammissibile - per carenza dei requisiti soggettivi ed oggettivi previsti dall'art. 37 della legge n. 87 del 1953 - il ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato promosso nei confronti del Governo dal CODACONS, dal senatore Bartolomeo Pepe e da Giovanni Pignoloni, nella qualità di cittadino elettore, in relazione alla delibera del Consiglio dei ministri 10 ottobre 2017 e all'atto del Governo, con i quali è stata autorizzata e poi posta, alla Camera dei deputati, la questione di fiducia sull'approvazione, senza emendamenti né articoli aggiuntivi, degli artt. 1, 2 e 3 del testo unificato delle proposte di legge n. 2352 e abbinate A/R, concernenti l'elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, per asserita lesione delle prerogative del corpo elettorale (artt. 1, 2, 3, 24, 48, 49, 51, 56, 71, 92, 111, 113, 117, 138 Cost., 13 della CEDU, 3 del Protocollo addizionale alla CEDU) e per violazione del divieto di porre la questione di fiducia su una legge elettorale (artt. 49 e 116, comma 4, del Regolamento della Camera e 72 Cost., in combinato disposto). A prescindere dalla incertezza della prospettazione dei ricorrenti, dovuta al carattere cumulativo e congiunto del ricorso e alla circostanza che le censure sono presentate senza considerazione della diversità delle rispettive qualificazioni, il CODACONS e il cittadino elettore non sono legittimati a sollevare conflitto, in quanto nessuno dei due può qualificarsi potere dello Stato ai sensi dell'art. 134 Cost., ed in quanto - sotto il profilo oggettivo - la posizione della questione di fiducia è inidonea a ledere direttamente la libertà di voto e la sovranità dei cittadini. Neppure il senatore è legittimato, nel caso di specie, a ricorrere per conflitto, posto che pretende inammissibilmente di rappresentare, in un conflitto promosso contro il Governo, l'intero organo cui appartiene, e che, in ogni caso, un membro del Senato non può lamentare la violazione del procedimento parlamentare svoltosi presso la Camera, non riguardando tale procedimento alcuna competenza o prerogativa di un senatore, configurandosi perciò come meramente ipotetica la lamentata lesione e come preventivo il relativo conflitto. Soggetti ed organi diversi dallo Stato-apparato possono essere parti di un conflitto tra poteri, ai sensi dell'art. 134 Cost. e dell'art. 37 della legge n. 87 del 1953, solo se titolari di una pubblica funzione costituzionalmente rilevante e garantita. ( Precedente citato: ordinanza n. 17 del 1978 ). Il CODACONS non è titolare di funzioni costituzionalmente rilevanti, bensì delle sole situazioni soggettive spettanti alle organizzazioni proprie della società civile. ( Precedente citato : ordinanza n. 256 del 2016 ). Il singolo cittadino, seppure vanti la qualità di elettore, non è investito di funzioni [costituzionalmente rilevanti] tali da legittimarlo a sollevare conflitto di attribuzione. (Precedenti citati: ordinanze n. 256 del 2016, n. 121 del 2011, n. 85 del 2009, n. 434 del 2008, n. 284 del 2008, n. 189 del 2008 e n. 296 del 2006) . Gli atti che si innestano nel procedimento legislativo sono inidonei a ledere la sfera di soggetti estranei alle Camere. ( Precedenti citati: ordinanze n. 121 del 2011, n. 120 del 2009, n. 172 del 1997, n. 45 del 1983 e, con particolare riferimento alla posizione della questione di fiducia da parte del Governo, n. 44 del 1983 ). La posizione della questione di fiducia è inidonea a ledere direttamente la libertà di voto e la sovranità dei cittadini, potendo semmai, in astratto, incidere sulle attribuzioni costituzionali dei membri del Parlamento, che rappresentano la Nazione senza vincolo di mandato (art. 67 Cost.). Resta impregiudicata la configurabilità di attribuzioni individuali di potere costituzionale per la cui tutela il singolo parlamentare sia legittimato a promuovere un conflitto tra poteri dello Stato. ( Precedenti citati: sentenza n. 225 del 2001; ordinanze n. 149 del 2016, n. 222 del 2009, n. 177 del 1998 ) .
Sono dichiarate inammissibili - per carenza assoluta di motivazione in punto di non manifesta infondatezza - le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 1, lett. f), della legge n. 52 del 2015, e degli artt. 1, comma 2, e 83, commi da 1 a 5, del d.P.R. n. 361 del 1957, come modificati e sostituiti, rispettivamente, dall'art. 2, commi 1 e 25, della legge n. 52 del 2015 (c.d. Italicum), sollevate dal Tribunale di Messina in riferimento agli artt. 1, primo e secondo comma, 3, primo e secondo comma, 49, 51, primo comma, e 56, primo comma, Cost., e all'art. 3 del Protocollo addizionale alla CEDU. Tali parametri sono evocati nel solo dispositivo dell'ordinanza di rimessione, senza alcuna illustrazione delle ragioni di contrasto con le disposizioni censurate. Per costante giurisprudenza costituzionale, sono inammissibili le questioni incidentali prive di alcuna motivazione in punto di non manifesta infondatezza. ( Precedenti citati: sentenze n. 59 del 2016, n. 248 del 2015 e n. 100 del 2015; ordinanze n. 122 del 2016 e n. 33 del 2016 ).
Sono dichiarate inammissibili - per insufficiente motivazione sulla non manifesta infondatezza e oggettiva oscurità del petitum - le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 16, comma 1, lett. b), e 17 del d.lgs. n. 533 del 1993, come modificati dall'art. 4, commi 7 e 8, della legge n. 270 del 2005, sollevate dal Tribunale di Messina in riferimento agli artt. 1, 3. 48, secondo comma, 49 e 51 Cost. Il rimettente non illustra le ragioni per cui il denunciato impedimento alla formazione di maggioranze omogenee nei due rami del Parlamento dipenderebbe dalle norme censurate - in quanto prevedono soglie di sbarramento per l'elezione del Senato della Repubblica diverse da quelle introdotte per l'elezione della Camera dei deputati dalla legge n. 52 del 2015 (c.d. Italicum) - e non da altre, assai più rilevanti, differenze riscontrabili tra i due sistemi elettorali; inoltre, non motiva distintamente le ragioni di violazione di ciascuno dei plurimi parametri evocati (aventi contenuti e significati all'evidenza diversi), né chiarisce quale delle due diverse discipline delle soglie di sbarramento dovrebbe essere uniformata all'altra, trascurando altresì che l'ipotetico accoglimento della questione sollevata condurrebbe semplicemente alla caducazione delle censurate disposizioni della legge elettorale del Senato, derivandone il permanere di una diversità tra i due sistemi. Per costante giurisprudenza costituzionale, non basta l'indicazione delle norme da raffrontare per valutare la compatibilità dell'una rispetto al contenuto precettivo dell'altra, ma è necessario motivare il giudizio negativo in tal senso e, se del caso, illustrare i passaggi interpretativi operati al fine di enucleare i rispettivi contenuti di normazione. ( Precedenti citati: sentenze n. 120 del 2015 e n. 236 del 2011, ordinanze n. 26 del 2012, n. 321 del 2010 e n. 181 del 2009 ).
Sono dichiarate inammissibili - per motivazione apodittica e carenza di distinta motivazione sui parametri evocati - le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 35, della legge n. 52 del 2015 (c.d. Italicum), censurato dal Tribunale di Messina, in riferimento agli artt. 1, 3, 48, primo comma, 49, 51, primo comma, e 56, primo comma, Cost., in quanto, prevedendo che le modifiche al d.P.R. n. 361 del 1957, apportate dallo stesso art. 2 per ridisegnare il sistema di elezione della Camera dei deputati, si applicano dal 1° luglio 2016, consentono (nelle more del procedimento di revisione costituzionale finalizzato, tra l'altro, alla trasformazione del Senato della Repubblica e al superamento dell'assetto bicamerale paritario) il rinnovo dei due rami del Parlamento con sistemi elettorali differenti. La mera affermazione di disomogeneità dei due sistemi elettorali, senza l'indicazione di quali caratteri differenziati determinerebbero l'asserita situazione di "palese ingovernabilità, per la coesistenza di due diverse maggioranze", non basta a consentire l'accesso della censura allo scrutinio di merito e alla identificazione di un petitum accoglibile. Inoltre, i parametri costituzionali sono evocati solo numericamente, senza una distinta motivazione della loro ipotizzata violazione, né tra essi figurano gli artt. 94, primo comma, e 70 Cost., che dovrebbero necessariamente venire in considerazione ove si intenda sostenere che due leggi elettorali "diverse" compromettano sia il funzionamento della forma di governo parlamentare, sia l'esercizio collettivo della funzione legislativa.
Sono manifestamente inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 4, comma 2, 59, comma 1, 83, commi 1, numero 5), e 2, del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 (nel testo risultante dalla legge n. 270 del 2005) e degli artt. 14, comma 1, e 17, commi 2 e 4, del d.lgs. 20 dicembre 1993, n. 533 (nel testo risultante dalla citata legge del 2005), impugnati, in riferimento agli artt. 1, secondo comma, 3, 48, secondo comma, 49, 56, primo comma, 58, primo comma, e 67 Cost. nonché all'art. 3 del Protocollo addizionale alla CEDU, in quanto contengono norme per l'elezione dei componenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica che non permettono al cittadino di esprimere la preferenza per i singoli candidati, ma lasciano allo stesso la sola possibilità di ratificare la scelta dei candidati già decisa dai partiti, attraverso un gioco di procedure nella formazione delle liste elettorali, determinando, in tal modo, unilateralmente la scelta dei candidati, i quali, pertanto, vengono ad assumere la qualifica e il ruolo di nominati e non già di eletti. Successivamente alle ordinanze di rimessione, tutte le impugnate disposizioni dei testi unici delle leggi elettorali di Camera e Senato sono state dichiarate incostituzionali con la sentenza n. 1 del 2014, sicché è venuto meno l'oggetto delle questioni, perché a seguito di tale decisione, le predette norme sono state già rimosse dall'ordinamento con efficacia ex tunc . Inoltre, dalla stessa prospettazione emerge chiaramente che, per la definizione dei giudizi principali, il rimettente non è in alcun modo chiamato ad applicare le censurate norme elettorali, dovendo egli esclusivamente accertare la penale responsabilità di due cittadini extracomunitari, per i reati loro rispettivamente ascritti di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato e di violazione dell'ordine di lasciare il territorio medesimo. Nella specie, l'impugnazione delle menzionate norme elettorali si configura quale tentativo da parte del rimettente di proporre in via diretta un controllo di costituzionalità, che risulta surrettiziamente attivato, al di fuori dei limiti sanciti dagli artt. 1 della legge costituzionale n. 1 del 1948 e 23, secondo comma, della legge n. 87 del 1953, essendo del tutto carente il nesso di indispensabile pregiudizialità dello specifico scrutinio richiesto alla Corte rispetto agli esiti della decisione del giudizio principale. D'altra parte, la radicale mancanza d'incidentalità del richiesto vaglio delle norme neppure può dirsi colmata dalla affermazione - peraltro formulata in maniera del tutto apodittica - di una conseguente "non prescrittività" delle leggi approvate dai Parlamenti succedutisi dopo il dicembre del 2005 (e costituiti sulla base di norme elettorali incostituzionali) e quindi anche di quelle penali applicabili nei processi a quibus . - Per la declaratoria di illegittimità costituzionale delle impugnate disposizioni dei testi unici delle leggi elettorali di Camera e Senato, v. la citata sentenza n. 1/2014. - Sulla manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale riguardanti norme già dichiarate costituzionalmente illegittime, v., ex plurimis , le citate ordinanze nn. 321/2013, 294/2013, 280/2013 e 257/2013. - Sull'indispensabile requisito della rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate in via incidentale, v., ex plurimis , le citate ordinanze nn. 306/2013, 196/2013, 176/2013 e 81/2013.
Sono manifestamente inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 10- bis (così come inserito dall'art. 1, comma 16, lett. a , della legge n. 94 del 2009) e 14, commi 5- quater e 5- bis (già inseriti dall'art. 13, comma 1, lett. b , della legge n. 189 del 2002 e sostituiti rispettivamente dai numeri 6 e 4 della lett. d del comma 1 dell'art. 3 del d.l. n. 89 del 2011), del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, impugnati, in riferimento agli artt. 1, secondo comma, 3, 48, secondo comma, 49, 56, primo comma, 58, primo comma, e 67 Cost. nonché all'art. 3 del Protocollo addizionale alla CEDU, in quanto contengono le norme incriminatrici dei reati di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato e di violazione dell'ordine di lasciare il territorio medesimo, oggetto della cognizione nei giudizi a quibus , approvate da un Parlamento di cui risulta dubbia la legalità ovvero la legittimità costituzionale della sua investitura. Infatti, il remittente si è esclusivamente limitato, in termini puramente assiomatici, a far cenno alla circostanza che, nei giudizi principali, si procede a carico di due cittadini extracomunitari per i predetti reati e ad asserire che le questioni sarebbero «rilevanti perché, se accolte, comporterebbero l'assoluzione del prevenuto». Pertanto, nell'ordinanza di rimessione manca ogni specifico riferimento - atto a permettere la necessaria verifica dell'asserita rilevanza delle questioni, sia nel loro complesso sia in rapporto alle singole censure - alle vicende concrete che hanno dato origine alle imputazioni ed alla loro effettiva riconducibilità ai paradigmi punitivi considerati. - Sul requisito della rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate in via incidentale, v. le citate ordinanze nn. 175/2013, 84/2013 e 65/2013.
Sono costituzionalmente illegittimi, per contrasto con gli artt. 48, secondo comma, 49, 56, primo comma, 58, primo comma, e 67 Cost., gli artt. 4, comma 2, e 59 del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361, nella parte in cui non consentono all'elettore di esprimere una preferenza per i candidati. Le norme censurate, concernenti le modalità di espressione del voto per l'elezione dei componenti della Camera dei deputati, si inseriscono in un contesto normativo in base al quale tale voto avviene per liste concorrenti di candidati (art. 1, comma 1, del d.P.R. n. 361 del 1957), presentati «secondo un determinato ordine», in numero «non inferiore a un terzo e non superiore ai seggi assegnati alla circoscrizione» (art. 18- bis , comma 3, del d.P.R. n. 361 del 1957). Le circoscrizioni elettorali, la cui disciplina non è investita dalle censure, corrispondono per la Camera dei deputati (Allegato A alla legge n. 270 del 2005) ai territori regionali, con l'eccezione delle Regioni di maggiori dimensioni, nelle quali sono presenti due circoscrizioni (Piemonte, Veneto, Lazio, Campania e Sicilia) o tre (Lombardia). La ripartizione dei seggi tra le liste concorrenti è, inoltre, effettuata in ragione proporzionale, con l'eventuale attribuzione del premio di maggioranza (art. 1, comma 2, del d.P.R. n. 361 del 1957); e sono proclamati «eletti, nei limiti dei seggi ai quali ciascuna lista ha diritto, i candidati compresi nella lista medesima, secondo l'ordine di presentazione» nella lista (art. 84, comma 1, del d.P.R. n. 361 del 1957). In questo quadro, le disposizioni impugnate, nello stabilire che il voto espresso dall'elettore, destinato a determinare per intero la composizione della Camera, è un voto per la scelta della lista, escludono ogni facoltà dell'elettore di incidere sull'elezione dei propri rappresentanti, la quale dipende, oltre che, ovviamente, dal numero dei seggi ottenuti dalla lista di appartenenza, dall'ordine di presentazione dei candidati nella stessa, sostanzialmente deciso dai partiti. La scelta dell'elettore, in altri termini, si traduce in un voto di preferenza esclusivamente per la lista, che - in quanto presentata in circoscrizioni elettorali molto ampie - contiene un numero assai elevato di candidati, che può corrispondere all'intero numero dei seggi assegnati alla circoscrizione, e li rende, di conseguenza, difficilmente conoscibili dall'elettore stesso. Una simile disciplina priva l'elettore di ogni margine di scelta dei propri rappresentanti, scelta che è totalmente rimessa ai partiti, e compromette la libertà di voto del cittadino, chiamato a determinare l'elezione di tutti i deputati, votando un elenco spesso assai lungo di candidati, che difficilmente conosce. In definitiva, è la circostanza che alla totalità dei parlamentari eletti, senza alcuna eccezione, manca il sostegno della indicazione personale dei cittadini, che ferisce la logica della rappresentanza consegnata nella Costituzione. Simili condizioni di voto, che impongono al cittadino, scegliendo una lista, di scegliere in blocco anche tutti i numerosi candidati in essa elencati, che non ha avuto modo di conoscere e valutare e che sono automaticamente destinati, in ragione della posizione in lista, a diventare deputati, rendono la disciplina in esame non comparabile con altri sistemi caratterizzati da liste bloccate solo per una parte dei seggi ovvero da circoscrizioni territorialmente ridotte, nelle quali il numero dei candidati da eleggere sia talmente esiguo da garantire l'effettiva conoscibilità degli stessi e con essa l'effettività della scelta e la libertà del voto. Le condizioni stabilite dalle norme censurate sono, viceversa, tali da alterare per l'intero complesso dei parlamentari il rapporto di rappresentanza fra elettori ed eletti. Anzi, impedendo che esso si costituisca correttamente e direttamente, coartano la libertà di scelta degli elettori nell'elezione dei propri rappresentanti in Parlamento, che costituisce una delle principali espressioni della sovranità popolare, e pertanto contraddicono il principio democratico, incidendo sulla stessa libertà del voto. - Per il principio secondo cui l'attribuzione ai partiti del compito di indicare l'ordine di presentazione delle candidature non lede in alcun modo la libertà di voto del cittadino, a condizione che quest'ultimo sia «pur sempre libero e garantito nella sua manifestazione di volontà, sia nella scelta del raggruppamento che concorre alle elezioni, sia nel votare questo o quel candidato incluso nella lista prescelta, attraverso il voto di preferenza», v. la citata sentenza n. 203/1975. - Sulle funzioni attribuite ai partiti politici dalle leggi elettorali, v. la citata ordinanza n. 79/2006. - Per l'affermazione secondo cui la libertà del voto di cui all'art. 48 Cost. è alla base del principio democratico, v. la citata sentenza n. 16/1978.