Articolo 92 - COSTITUZIONE
Massime della Corte Costituzionale
Testo dell'articolo aggiornato secondo le disposizioni legislative vigenti.
Testo dell'articolo aggiornato secondo le disposizioni legislative vigenti.
È dichiarato inammissibile - per carenza dei requisiti soggettivi ed oggettivi previsti dall'art. 37 della legge n. 87 del 1953 - il ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato promosso nei confronti del Governo dal CODACONS, dal senatore Bartolomeo Pepe e da Giovanni Pignoloni, nella qualità di cittadino elettore, in relazione alla delibera del Consiglio dei ministri 10 ottobre 2017 e all'atto del Governo, con i quali è stata autorizzata e poi posta, alla Camera dei deputati, la questione di fiducia sull'approvazione, senza emendamenti né articoli aggiuntivi, degli artt. 1, 2 e 3 del testo unificato delle proposte di legge n. 2352 e abbinate A/R, concernenti l'elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, per asserita lesione delle prerogative del corpo elettorale (artt. 1, 2, 3, 24, 48, 49, 51, 56, 71, 92, 111, 113, 117, 138 Cost., 13 della CEDU, 3 del Protocollo addizionale alla CEDU) e per violazione del divieto di porre la questione di fiducia su una legge elettorale (artt. 49 e 116, comma 4, del Regolamento della Camera e 72 Cost., in combinato disposto). A prescindere dalla incertezza della prospettazione dei ricorrenti, dovuta al carattere cumulativo e congiunto del ricorso e alla circostanza che le censure sono presentate senza considerazione della diversità delle rispettive qualificazioni, il CODACONS e il cittadino elettore non sono legittimati a sollevare conflitto, in quanto nessuno dei due può qualificarsi potere dello Stato ai sensi dell'art. 134 Cost., ed in quanto - sotto il profilo oggettivo - la posizione della questione di fiducia è inidonea a ledere direttamente la libertà di voto e la sovranità dei cittadini. Neppure il senatore è legittimato, nel caso di specie, a ricorrere per conflitto, posto che pretende inammissibilmente di rappresentare, in un conflitto promosso contro il Governo, l'intero organo cui appartiene, e che, in ogni caso, un membro del Senato non può lamentare la violazione del procedimento parlamentare svoltosi presso la Camera, non riguardando tale procedimento alcuna competenza o prerogativa di un senatore, configurandosi perciò come meramente ipotetica la lamentata lesione e come preventivo il relativo conflitto. Soggetti ed organi diversi dallo Stato-apparato possono essere parti di un conflitto tra poteri, ai sensi dell'art. 134 Cost. e dell'art. 37 della legge n. 87 del 1953, solo se titolari di una pubblica funzione costituzionalmente rilevante e garantita. ( Precedente citato: ordinanza n. 17 del 1978 ). Il CODACONS non è titolare di funzioni costituzionalmente rilevanti, bensì delle sole situazioni soggettive spettanti alle organizzazioni proprie della società civile. ( Precedente citato : ordinanza n. 256 del 2016 ). Il singolo cittadino, seppure vanti la qualità di elettore, non è investito di funzioni [costituzionalmente rilevanti] tali da legittimarlo a sollevare conflitto di attribuzione. (Precedenti citati: ordinanze n. 256 del 2016, n. 121 del 2011, n. 85 del 2009, n. 434 del 2008, n. 284 del 2008, n. 189 del 2008 e n. 296 del 2006) . Gli atti che si innestano nel procedimento legislativo sono inidonei a ledere la sfera di soggetti estranei alle Camere. ( Precedenti citati: ordinanze n. 121 del 2011, n. 120 del 2009, n. 172 del 1997, n. 45 del 1983 e, con particolare riferimento alla posizione della questione di fiducia da parte del Governo, n. 44 del 1983 ). La posizione della questione di fiducia è inidonea a ledere direttamente la libertà di voto e la sovranità dei cittadini, potendo semmai, in astratto, incidere sulle attribuzioni costituzionali dei membri del Parlamento, che rappresentano la Nazione senza vincolo di mandato (art. 67 Cost.). Resta impregiudicata la configurabilità di attribuzioni individuali di potere costituzionale per la cui tutela il singolo parlamentare sia legittimato a promuovere un conflitto tra poteri dello Stato. ( Precedenti citati: sentenza n. 225 del 2001; ordinanze n. 149 del 2016, n. 222 del 2009, n. 177 del 1998 ) .
Non spettava alla Corte di cassazione affermare con sentenza la sindacabilità in sede giurisdizionale della delibera con cui il Consiglio dei ministri ha negato all'Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti (UAAR) l'apertura delle trattative per la stipulazione dell'intesa di cui all'art. 8, terzo comma, Cost.; conseguentemente, è annullata la relativa pronuncia adottata dalle sezioni unite civili, 28 giugno 2013, n. 16305. Nell'ordinamento costituzionale italiano l'intesa richiesta, ex art. 8, terzo comma, Cost., per la regolazione dei rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose diverse da quella cattolica presuppone il rispetto del metodo della bilateralità, cioè la necessità dell'incontro della volontà delle due parti già sulla scelta di avviare le trattative. Non è, quindi, configurabile la giustiziabilità della pretesa all'avvio delle trattative in quanto non è configurabile una pretesa soggettiva alla conclusione positiva delle trattative stesse, risultando altrimenti contraddittorio imporne l'illusoria apertura senza che se ne possa garantire giudizialmente la relativa conclusione. Alla luce di un ragionevole bilanciamento dei diversi interessi protetti dagli artt. 8 e 95 Cost., non è, quindi, configurabile - in capo ad una associazione che ne faccia richiesta, allegando la propria natura di confessione religiosa - una pretesa giustiziabile all'avvio delle trattative ex art. 8, terzo comma, Cost. Spetta, infatti, al Governo una discrezionalità ampia nel concedere all'associazione, che lo richiede, l'avvio delle trattative, il cui unico limite è rintracciabile nei principi costituzionali. L'eventuale atto di diniego all'apertura delle trattative - nella misura e per la parte in cui si fondi sul presupposto che l'interlocutore non sia una confessione religiosa - non può produrre, sulla sfera giuridica dell'associazione richiedente, ulteriori conseguenze negative, diverse dal mancato avvio del negoziato, in virtù dei principi espressi agli artt. 3, 8, 19 e 20 Cost. Sulla legittimazione della Corte di cassazione ad essere parte di un conflitto tra poteri dello Stato, v., ex multis , le citate sentenze nn. 29/2014, 24/2014, 320/2013 e 333/2011. Sui requisiti per l'ammissibilità di un ricorso per conflitto tra poteri promosso avverso una decisione giudiziaria, non potendosi trasformare in un improprio mezzo d'impugnazione della stessa, v. le sentenze nn. 88/2012, 81/2012, 259/2009, 195/2007 e 276/2003 nonché l'ordinanza n. 117/2006. Sull'intesa per la regolazione dei rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose diverse da quella cattolica, di cui all'art. 8, terzo comma, Cost., v. le sentenze nn. 346/2002, 235/1997 e 59/1958. Sul riconoscimento della libertà di organizzazione e di azione garantita a tutte le confessioni dai primi due commi dell'art. 8 Cost. e dall'art. 19 Cost., a prescindere dalla circostanza che esse abbiano o meno regolato i loro rapporti con lo Stato tramite accordi o intese, v. le sentenze nn. 346/2002, 195/1993 e 43/1988. Sul principio di laicità e, quindi, di imparzialità ed equidistanza rispetto a ciascuna confessione religiosa, v. le sentenze nn. 508/2000 e 329/1997. Sulla nozione di confessione religiosa, v. le sentenze nn. 195/1993 e 467/1992.
È ammissibile il ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri, in proprio e a nome del Consiglio dei ministri, nei confronti della Corte di cassazione in relazione alla sentenza con la quale è stato respinto, per motivi di giurisdizione, il ricorso proposto dal Presidente del Consiglio dei ministri avverso la decisione del Consiglio di Stato che aveva affermato la sindacabilità della deliberazione del Consiglio dei Ministri con la quale si era deciso di non avviare le trattative, ex art. 8, comma terzo, Cost., finalizzate alla conclusione dell'intesa tra lo Stato e l'Unione degli atei e degli agnostici razionalisti. Sotto il profilo del requisito soggettivo, va riconosciuta la legittimazione del ricorrente a promuovere conflitto, in quanto organo competente a dichiarare definitivamente la volontà del potere a cui appartiene; parimenti, deve essere riconosciuta la legittimazione della Corte di cassazione ad essere parte del conflitto di attribuzione. Quanto al profilo oggettivo, il ricorrente lamenta la lesione della propria sfera di attribuzione, costituzionalmente garantita dagli artt. 8, terzo comma, 92 e 95 Cost., in relazione alla funzione di indirizzo politico in materia religiosa. Sulla legittimazione dei singoli organi giurisdizionali ad essere parti di conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato, v. le citate sentenze nn. 69/2013 e 286/2014.
In relazione al conflitto proposto - in riferimento al principio di leale collaborazione - dal Presidente del Consiglio dei ministri nei confronti del Tribunale ordinario di Milano, sezione I penale, e avente ad oggetto l'ordinanza con la quale il predetto Tribunale ha rigettato la richiesta di rinvio dell'udienza dibattimentale del 1° marzo 2010, formulata dalla difesa dell'imputato, allora Presidente del Consiglio dei ministri, per legittimo impedimento di quest'ultimo, in quanto impegnato, nella medesima data, nella presidenza della riunione del Consiglio dei ministri, va dichiarato che spettava al predetto Tribunale stabilire che non costituiva impedimento assoluto alla partecipazione alla richiamata udienza penale l'impegno dell'imputato Presidente del Consiglio dei ministri di presiedere una riunione del Consiglio da lui stesso convocata per tale giorno, giorno che egli aveva in precedenza indicato come utile per la partecipazione all'udienza. L'imputato, infatti, non ha fornito alcuna allegazione circa la non rinviabilità dell'impegno istituzionale e la necessaria concomitanza di esso con l'udienza di cui chiedeva il rinvio, né ha indicato una data alternativa per definire un nuovo calendario e questa mancanza di "allegazioni" ha impedito al Tribunale di considerare assoluta l'impossibilità a comparire determinata dall'impegno dedotto quale impedimento. La partecipazione a una riunione del Consiglio dei ministri può in astratto costituire un impedimento ai sensi dell'art. 420- ter del cod. proc. pen., in quanto compresa tra le attività istituzionali «riconducibili [...] alla sfera di attribuzioni previste dagli artt. da 92 a 96 della Costituzione» e «coessenzial[i] alla funzione tipica del Governo». Tuttavia, rispetto ai casi in cui la possibilità di rinviare la comparizione in udienza sfugge alla programmazione dell'imputato, la posizione del Presidente del Consiglio è nettamente differenziata perché il Consiglio è convocato dallo stesso Presidente e inoltre perché l'ipotesi di assenza o impedimento temporaneo del Presidente del Consiglio è espressamente disciplinata dall'art. 1, comma 2, del d.P.C.m. del 10 novembre 1993. - In tema di legittimo impedimento per concomitante esercizio di funzioni parlamentari o governative, v. le citate sentenze nn. 23/2011, 262/2009, 451/2005, 284/2004, 263/2003 e 225/2001.
E' ammissibile il ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato dal Presidente del Consiglio dei ministri nei confronti del Tribunale di Milano, sezione I penale, in relazione all'ordinanza con la quale il predetto tribunale ha rigettato - così violando gli artt. 92 e 95 della Costituzione - la richiesta di rinvio dell'udienza dibattimentale del 1° marzo 2010, formulata dalla difesa del Presidente del Consiglio dei ministri per legittimo impedimento di quest'ultimo, in quanto impegnato, nella medesima data, nella presidenza della riunione del Consiglio dei ministri, con il quale si chiede che la Corte costituzionale: dichiari «che non spetta al Tribunale di Milano stabilire che non costituisce impedimento assoluto alla partecipazione alle udienze penali, e perciò causa di giustificazione della sua assenza, il diritto-dovere del Presidente del Consiglio dei ministri a presiedere una riunione del Consiglio dei ministri, anche nell'ipotesi in cui la predetta riunione, già fissata in una precedente data non coincidente con un giorno di udienza dibattimentale, venga differita ad altra data coincidente con un giorno di udienza»; annulli, conseguentemente, l'ordinanza pronunciata in data 1° marzo 2010 nonché l'attività istruttoria compiuta nel corso della udienza predetta. Nei limiti propri della preliminare delibazione in ordine all'ammissibilità del conflitto di attribuzione, a norma dell'art. 37, terzo e quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, sussistono infatti i requisiti soggettivi ed oggettivi previsti dal primo comma del citato art. 37, ai fini della configurabilità di un conflitto tra poteri dello Stato. Sotto il profilo soggettivo, il Presidente del Consiglio dei ministri è legittimato a sollevare il conflitto, in quanto organo competente a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartiene, mentre al Tribunale di Milano, sezione I penale, va riconosciuta la legittimazione a resistervi, essendo organo giurisdizionale che, svolgendo le funzioni in posizione di piena indipendenza, costituzionalmente garantita, è competente a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartiene nel procedimento di cui è investito. Sotto il profilo oggettivo, il ricorso è volto a tutelare una sfera di attribuzioni costituzionalmente garantite, che nella prospettazione del ricorrente sono desumibili dagli artt. 92 e 95 della Costituzione, consistono nel potere di convocare e presiedere il Consiglio dei ministri e sarebbero state lese in ragione del mancato riconoscimento giudiziale del relativo esercizio quale causa di legittimo impedimento a comparire nelle udienze penali. E' onere del ricorrente per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato provvedere: alla notificazione del ricorso e della ordinanza di ammissibilità al resistente entro il termine di sessanta giorni dalla comunicazione dell'ordinanza medesima al ricorrente da parte della cancelleria della Corte; al successivo deposito, nella cancelleria della Corte, dei citati atti, con la prova dell'avvenuta notifica ed entro il termine di trenta giorni dall'ultima notificazione, a norma dell'art. 24, comma 3, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale
Manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell?art. 126, terzo comma, della Costituzione, in riferimento agli artt. 3, 97, 123, 92 e 94 della Costituzione e, in particolare, al principio del parlamentarismo che ne sarebbe deducibile, secondo cui un?assemblea elettiva non potrebbe essere sciolta per eventi accidentali in permanenza del rapporto fiduciario, che la Regione Calabria ha chiesto, in via subordinata, a questa Corte di sollevare dinnanzi a sé. Infatti, la forma di governo di tipo parlamentare non solo non sembra costituire un principio organizzativo immodificabile del sistema costituzionale statale, ma lo stesso Titolo V prevede esplicitamente la possibilità di diverse forme di governo a livello regionale.
L'art. 8, comma 5, lettera c), della legge 15 marzo 1997, n. 59, nella parte in cui abroga la disposizione dell'art. 2, comma 3, lettera d), della legge 23 agosto 1988, n. 400, che includeva gli atti di indirizzo e coordinamento fra quelli sottoposti alla deliberazione del Consiglio dei ministri, e' costituzionalmente illegittimo. Mentre le disposizioni dei primi quattro commi dell'art. 8 della legge n. 59 - che sanciscono il principio della previa intesa con la conferenza Stato-Regioni o con la Regione interessata per l'adozione degli atti di indirizzo, la facolta' del Governo di adottarli unilateralmente, previo parere della Commissione parlamentare per le questioni regionali, ove l'intesa non sia raggiunta entro quarantacinque giorni; la facolta' del Governo di provvedere in caso di urgenza senza l'osservanza di tali procedure, sottoponendo in via successiva l'atto alla conferenza e alla commissione parlamentare, e infine la trasmissione alle competenti commissioni parlamentari degli atti di indirizzo - non potrebbero di per se' - diversamente dal comma 5 - essere interpretate nel senso che autorizzino l'adozione di atti di indirizzo da parte di organi diversi dal Consiglio dei ministri quando sia intervenuta l'intesa prevista dal comma 1, la espressa abrogazione - operata dal comma 5, lett. c) - e' in contrasto con il principio - ripetutamente affermato dalla Corte costituzionale - secondo il quale la funzione di indirizzo e coordinamento, in quanto incidente per definizione in ambiti di azione amministrativa che spettano alle Regioni, non puo' identificarsi con le funzioni proprie delle amministrazioni statali volta a volta competenti per materia, ma e' espressione del potere, demandato in concreto dalla legge al Consiglio dei ministri - quale organo chiamato a delineare, dall'art. 95 Cost., "la politica generale del Governo" - in ordine alla esigenza di indirizzare e coordinare l'attivita' delle Regioni per la salvaguardia di interessi unitari non frazionabili. E pertanto, dichiarata la incostituzionalita', 'in parte qua', di tale disposizione - cui consegue il ripristino della efficacia della norma abrogata - resta assorbita l'ulteriore questione sollevata dalla Regione siciliana nei confronti della norma caducata, in quanto essa avrebbe fatto venir meno la garanzia, resa esplicita nel contesto della disposizione abrogata, del rispetto delle disposizioni statutarie ai fini dell'adozione degli atti di indirizzo nei confronti delle Regioni ad autonomia speciale. - Riguardo alla derivazione costituzionale della necessita' della competenza del Consiglio dei ministri per l'adozione degli atti di indirizzo cfr. S. nn. 338/1989, 453/1991, 124/1994 e 18/1997. red.: S. Pomodoro
Non sono fondate le questioni di legittimita' costituzionale sollevate dalla Regione siciliana, in riferimento agli artt. 14, 15, 17 e 20 dello statuto siciliano ed agli artt. 3, 5, 92, 95, 114, 115, 117, 118 e 119 Cost., nei confronti dell'art. 9, comma 1, prima parte, della legge 15 marzo 1997, n. 59, e in riferimento, altresi', oltre che ai suindicati articoli dello statuto speciale e della Costituzione, allo stesso art. 9 della legge n. 59 del 1997, nei confronti degli artt. 1, 8, commi 1 e 4, e 9 del d.lgs. 28 agosto 1997, n. 281, e dalla Regione Puglia, in riferimento agli artt. 5, 115, 117, 118 e 119 Cost., nei confronti degli stessi su indicati articoli del decreto legislativo n. 281, riguardo alla unificazione - cosi' come risulta disciplinata dalle norme impugnate - della conferenza Stato-Regioni con la conferenza Stato - citta' ed autonomie locali. La previsione della conferenza unificata, con la presenza sia dei rappresentanti delle Regioni, sia di quelli delle autonomie locali, quale strumento di raccordo fra Governo e sistema delle autonomie, quando vengano in discussione argomenti di interesse comune delle Regioni e degli enti locali, e' infatti una scelta discrezionale del legislatore, non in contrasto con la Costituzione in quanto sia nelle disposizioni della legge n. 59 che in quelle del decreto legislativo n. 281, l'identita' di ciascuna delle due conferenze e la loro distinzione pur nel loro congiunto operare non vengono mai meno. Come del resto e' confermato anche dalle prescrizioni procedurali del decreto legislativo n. 281 sulle deliberazioni della conferenza unificata, nelle quali, ferma restando la necessita' dell'assenso del Governo, l'assenso delle Regioni e degli enti locali e' assunto attraverso il voto distinto dei membri dei due gruppi, sicche' e' da escludersi che i rappresentanti delle autonomie locali partecipino a procedimenti di raccordo fra lo Stato e le Regioni, o che addirittura possano vincolare la volonta' della Regione in ordine ai rapporti con i rispettivi enti locali. - Sui poteri discrezionali del legislatore ordinario in ordine alla realizzazione del sistema di autonomie delineato dalla Costituzione, v. la precedente massima A. red.: S. Pomodoro
Non sono fondate, nei sensi di cui in motivazione, le questioni di legittimita' costituzionale sollevate dalla Regione Siciliana, in riferimento agli artt. 14, 15, 17 e 20 dello statuto siciliano ed agli artt. 3, 5, 92, 95, 114, 115, 117, 118 e 119 Cost., e dalla Regione Puglia, in riferimento agli artt. 5, 76, 115, 117, 118 e 119 Cost., nei confronti della disposizione dell'art. 9, comma 1, lettera a), della legge 15 marzo 1997, n. 59, ripresa e confermata dall'art. 2, comma 1, del d.lgs. 28 agosto 1997, n. 281, secondo cui la conferenza Stato-Regioni partecipa a tutti i processi decisionali, oltre che di interesse regionale, anche "di interesse interregionale e infraregionale". Contrariamente a quanto si e' assunto dalle ricorrenti, infatti, le norme impugnate non possono interpretarsi nel senso che il Governo o i membri della conferenza possano provocare la deliberazione della medesima su qualsiasi argomento, anche d'interesse esclusivo di una o piu' Regioni o di parti di esse, con una ingerenza, contraria alla Costituzione, in processi decisionali di esclusiva competenza e responsabilita' delle stesse. Atteso che, in base alle previsioni dell'art. 12, comma 1, della legge 23 agosto 1988, n. 400 - fondamentali in materia - la premessa dell'intervento della conferenza e' sempre la presenza di una qualche implicazione degli "indirizzi di politica generale" di pertinenza degli organi statali, il che fa appunto della conferenza la sede di raccordo per consentire alle Regioni di partecipare a processi decisionali che altrimenti resterebbero nella esclusiva disponibilita' dello Stato. Intesa in tale significato l'espressione "processi decisionali di interesse nazionale, interregionale e infraregionale", le disposizioni in questione non prestano piu' il fianco alle avanzate censure. red.: S. Pomodoro
Questione gia' dichiarata non fondata. - S. n. 263/1994 red.: S.P.