Articolo 95 - COSTITUZIONE
Massime della Corte Costituzionale
Testo dell'articolo aggiornato secondo le disposizioni legislative vigenti.
Testo dell'articolo aggiornato secondo le disposizioni legislative vigenti.
Sono rilevanti le questioni di legittimità costituzionale - sollevate dal Tar Lazio, sez. prima ter , in riferimento agli artt. 3, 5, 77, secondo comma, 95, 97, 114, 117, primo comma, in relazione all'art. 3 della Carta europea dell'autonomia locale, e sesto comma, 118, 119 e 133, secondo comma, Cost. - dell'art. 14, commi 28, 28- bis , 29, 30 e 31 del d.l. n. 78 del 2010, come convertito, nonché l'art. 1, commi 110 e 111, della legge reg. Campania n. 16 del 2014, sussistendo il rapporto di pregiudizialità che il rimettente ravvisa tra tali questioni e la decisione definitiva del ricorso. L'eventuale illegittimità delle disposizioni censurate incide, infatti, sul procedimento principale, come richiesto dall'art. 23 della legge n. 87 del 1957 e costantemente confermato dalla giurisprudenza costituzionale. ( Precedenti citati: sentenze n. 67 del 2014, n. 91 del 2013, n. 236 del 2012 e n. 224 del 2012 ).
Sono dichiarate inammissibili - per difetto di motivazione sulla rilevanza - le questioni di legittimità costituzionale, sollevate dal TAR Lazio, sez. prima ter, in riferimento agli artt. 3, 5, 77, secondo comma, 95, 97, 114, 117, primo comma, in relazione all'art. 3 della Carta europea dell'autonomia locale, e sesto comma, 118, 119 e 133, secondo comma, Cost., dell'art. 14, commi 26 e 27, del d.l. n. 78 del 2010, conv., con modif., nella legge n. 122 del 2010, e successivamente modificato dall'art. 19, comma 1, del d.l. n. 95 del 2012, conv. con modif., nella legge n. 135 del 2012, che stabiliscono l'obbligo dei Comuni di esercitare le funzioni fondamentali di cui sono titolari e provvedono alla loro elencazione. Il rimettente non indica le ragioni che depongono per l'applicabilità delle citate disposizioni e per la pregiudizialità delle questioni ai fini della risoluzione della controversia nel giudizio principale, ove l'interesse alla tutela azionata dai ricorrenti è scaturito dalla preclusione a gestire le funzioni fondamentali autonomamente, dato l'obbligo loro imposto, in quanto Comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti (o a 3.000, se montani), di esercitarle in forma associata. ( Precedenti citati: sentenze n. 224 del 2018, n. 209 del 2017 e n. 119 del 2017 ).
Sono dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale, sollevate dal TAR Lazio, sez. prima ter , in riferimento all'art. 95 Cost., dell'art. 14, commi 28, 28- bis , 29, 30 e 31, del d.l. n. 78 del 2010, conv., con modif., nella legge n. 122 del 2010, e successivamente modificato dall'art. 19, comma 1, del d.l. n. 95 del 2012, conv., con modif., nella legge n. 135 del 2012, che disciplina l'esercizio obbligatorio in forma associata delle funzioni fondamentali da parte dei Comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti (o 3.000, se montani). Il riferimento al parametro di cui all'art. 95 Cost. appare non conferente, attesa la sua riferibilità solo all'indirizzo politico del Governo; in ogni caso, se è indubbio che l'autonomia degli enti locali territoriali vada in primo luogo intesa quale potere di indirizzo politico-amministrativo, tuttavia nell'ordinamento già da tempo sono previsti gli istituti della unione di Comuni e della convenzione, forme associative che risultano una proiezione degli enti stessi, rappresentative di questi ultimi, i quali rimangono capaci di tradurre il proprio indirizzo politico in una reale azione di influenza sull'esercizio in forma associata delle funzioni. ( Precedenti citati: sentenze n. 160 del 2016, sentenze n. 456 del 2005, n. 244 del 2005, n. 229 del 2001 e n. 77 del 1987 ).
Accolta - per violazione degli artt. 5, 114 e 97 Cost. - la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, commi 110 e 111, della legge reg. Campania n. 16 del 2014, restano assorbite le ulteriori censure di violazione degli artt. 3, 95, 114, 117, primo comma, quest'ultimo in relazione all'art. 3 della Carta europea dell'autonomia locale, e sesto, e 118 Cost.
Nel giudizio di legittimità costituzionale avente ad oggetto l'art. 1 del d.l. n. 3 del 2015, conv., con mod., nella legge n. 33 del 2015, deve essere dichiarato inammissibile, per tardività, l'intervento in giudizio spiegato da Amber Capital UK LLP e Amber Capital Italia SGR spa. L'atto di intervento è stato depositato oltre il termine di 20 giorni dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale dell'atto introduttivo del giudizio, previsto dall'art. 4, comma 4, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, giacché la pubblicazione dell'ordinanza di rimessione del Consiglio di Stato è avvenuta nella Gazzetta Ufficiale n. 11 del 15 marzo 2017. Per costante giurisprudenza costituzionale, il termine previsto dall'art. 4, comma 4, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale deve essere ritenuto perentorio e non ordinatorio, con la conseguenza che l'intervento avvenuto dopo la sua scadenza è inammissibile. ( Precedenti citati: sentenze n. 303 del 2010, n. 263 del 2009 e n. 215 del 2009 ).
È dichiarato inammissibile - per carenza dei requisiti soggettivo e oggettivo - il [ricorso per] conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri in relazione alla richiesta di rinvio a giudizio di Nicolò Pollari e Pio Pompa (l'uno ex direttore, l'altro ex collaboratore e poi dipendente del SISMI), formulata dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Perugia per il delitto di peculato continuato aggravato e ritenuta dal ricorrente lesiva delle proprie attribuzioni costituzionali in materia di tutela del segreto di Stato (artt. 1, 5, 52, 94 e 95 Cost., in relazione agli artt. 1, comma 1, lett. b e c, 39, 40 e 41 della legge n. 124 del 2007). Pur riferendosi espressamente alla richiesta di rinvio a giudizio di quasi sei anni prima, il ricorso non è rivolto contro l'originario atto di esercizio dell'azione penale, bensì contro le conclusioni formulate dal pubblico ministero nell'udienza preliminare del 16 luglio 2015, ossia contro un atto successivo all'esercizio dell'azione penale e interno al processo con essa promosso, espressivo non dell'attribuzione costituzionale prevista dall'art. 112 Cost., ma delle tesi dell'organo dell'accusa in ordine alla regiudicanda (in specie, volte a confermare la sussistenza dei presupposti per il rinvio a giudizio). Rispetto a simili atti - non attinenti al momento iniziale dell'azione penale e dunque non riconducibili all'esercizio obbligatorio dell'azione penale - non solo difetta la legittimazione (passiva) del pubblico ministero a essere parte del conflitto, ma è anche carente il connotato dell'idoneità lesiva, che pure condiziona, sul piano oggettivo, l'ammissibilità del conflitto. ( Precedenti citati: sentenza n. 40 del 1992, sull'apposizione del segreto; sentenza n. 463 del 1993, ordinanze n. 121 del 2011, n. 120 del 2009 e n. 398 del 1999, sulla necessaria idoneità lesiva dell'atto impugnato per conflitto; sentenza n. 163 del 2001, sulla inidoneità lesiva dell'atto di appello del p.m. ). Al pubblico ministero va riconosciuta la natura di potere dello Stato - legittimato, come tale, ad essere parte (attiva o passiva) di un conflitto di attribuzione - in quanto (e solo in quanto) investito dell'attribuzione, costituzionalmente garantita, inerente all'esercizio obbligatorio dell'azione penale (art. 112 Cost.), cui si connette la titolarità diretta ed esclusiva delle indagini ad esso finalizzate e rispetto alla quale il p.m., organo non giurisdizionale, deve ritenersi competente a dichiarare definitivamente, in posizione di piena indipendenza, la volontà del potere giudiziario cui appartiene. In quest'ottica, è senz'altro ammissibile il conflitto di attribuzione proposto contro il p.m. sia in relazione agli atti tipici di esercizio dell'azione penale (richiesta di rinvio a giudizio o di giudizio immediato) o alla decisione di non esercitarla (richiesta di archiviazione), sia in relazione alle attività investigative compiute dall'organo dell'accusa nella fase delle indagini preliminari; e ciò anche in rapporto ad esigenze di difesa del segreto di Stato. Al contrario, gli atti del pubblico ministero successivi all'esercizio dell'azione penale e interni al processo con essa promosso non ricadono sotto il cono della previsione dell'art. 112 Cost., non potendo essere configurati come proiezione necessaria del principio di obbligatorietà dell'esercizio dell'azione penale. ( Precedenti citati: sentenze n. 1 del 2013, n. 88 del 2012, n. 87 del 2012, n. 242 del 2009, n. 106 del 2009, n. 298 del 2008, n. 26 del 2007, n. 163 del 2001, n. 487 del 2000, n. 410 del 1998, n. 110 del 1998, n. 460 del 1995, n. 420 del 1995, n. 280 del 1995, n. 464 del 1993, n. 463 del 1993, n. 462 del 1993 e n. 178 del 1991; ordinanze n. 218 del 2012, n. 241 del 2011, n. 104 del 2011, n. 276 del 2008, n. 124 del 2007, n. 232 del 2003 e n. 312 del 2000 ).
Sono dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale - sollevate dal TAR Lazio in riferimento agli artt. 3, 4, 36, 38, 95, 97, 100, 101, 104 e 108 Cost. - dell'art. 1, comma 489, della legge n. 147 del 2013, il quale vieta alle amministrazioni e agli enti pubblici di erogare, a beneficio di soggetti già titolari di trattamenti pensionistici erogati da gestioni previdenziali pubbliche, trattamenti economici onnicomprensivi che, sommati al trattamento pensionistico, superino il limite di 240.000 euro annui. Il carattere limitato delle risorse pubbliche giustifica la necessità di una predeterminazione complessiva (modellata su un parametro prevedibile e certo) di quelle impiegabili dall'amministrazione a titolo di retribuzioni e pensioni, e non consente una considerazione parziale della retribuzione e del trattamento pensionistico. Inquadrata in tale contesto, la norma censurata, ancorata a una cifra predeterminata corrispondente all'attuale retribuzione del Primo Presidente della Corte di cassazione, attua un contemperamento non irragionevole dei principi costituzionali - dei quali il legislatore è chiamato a garantire una tutela sistemica, non frazionata - e non sacrifica in maniera indebita il diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, né compromette in misura arbitraria e sproporzionata il diritto al lavoro del pensionato, libero di esplicarsi nelle forme più convenienti. Neppure può ritenersi - stante la sua portata generale - che l'assetto prefigurato dal legislatore pregiudichi l'autonomia e l'indipendenza della magistratura, o che ingeneri di per sé arbitrarie discriminazioni tra i consiglieri di Stato e della Corte dei conti di nomina governativa e i consiglieri per concorso. Nulla esclude che il legislatore prefiguri soluzioni diverse e moduli in senso più duttile il cumulo tra pensioni e retribuzioni, anche in rapporto alle mutevoli esigenze di riassetto complessivo della spesa.
È ammissibile, a norma dell'art. 37 della legge 11 marzo 1953, n. 87, il ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato proposto dal Presidente del Consiglio dei ministri nei confronti della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Perugia in relazione alla richiesta di rinvio a giudizio degli imputati Nicolò Pollari e Pio Pompa ritenuta lesiva delle prerogative costituzionali del ricorrente in tema di esercizio delle attribuzioni relative al segreto di Stato. Esiste, infatti, la materia di un conflitto la cui risoluzione spetta alla competenza della Corte costituzionale, sussistendone tanto il requisito soggettivo quanto quello oggettivo. Sotto il profilo del requisito soggettivo, va riconosciuta la legittimazione del ricorrente a promuovere conflitto, in quanto il Presidente del Consiglio dei ministri è l'organo competente a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartiene in ordine alla tutela, apposizione, opposizione e conferma del segreto di Stato, non solo in base alla legge 3 agosto 2007, n. 124 (Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica e nuova disciplina del segreto), ma anche alla stregua delle norme costituzionali che ne definiscono le attribuzioni; parimenti, deve essere riconosciuta la legittimazione della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Perugia - nella persona del Procuratore della Repubblica, titolare dell'ufficio - ad essere parte del conflitto in quanto investita dell'attribuzione, costituzionalmente garantita, inerente all'esercizio obbligatorio dell'azione penale (art. 112 Cost.), cui si connette la titolarità diretta ed esclusiva delle indagini ad esso finalizzate. Quanto al profilo oggettivo, il ricorrente lamenta la lesione di attribuzioni costituzionalmente garantite, essendo devoluta alla responsabilità del Presidente del Consiglio dei ministri, sotto il controllo del Parlamento, la tutela del segreto di Stato quale strumento destinato alla salvaguardia della sicurezza dello Stato medesimo. Sul Presidente del Consiglio dei ministri quale organo competente a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartiene in ordine alla tutela, apposizione, opposizione e conferma del segreto di Stato, non solo in base alla legge n. 124 del 2007, ma anche alla stregua delle norme costituzionali che ne definiscono le attribuzioni, v., ex plurimis , le citate ordinanze nn. 244/2013, 69/2013, 376/2010 e 230/2008. Sulla legittimazione della Procura della Repubblica - nella persona del Procuratore della Repubblica, titolare dell'ufficio - a resistere in un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, v. la citata sentenza n. 1/2013. Sulla legittimazione della Procura della Repubblica a resistere nel conflitto, in quanto investita dell'attribuzione, costituzionalmente garantita, inerente all'esercizio obbligatorio dell'azione penale (art. 112 Cost.), cui si connette la titolarità diretta ed esclusiva delle indagini ad esso finalizzate, v., ex plurimis , le citate ordinanze nn. 218/2012, 241/2011 e 124/2007. Sulla devoluzione alla responsabilità del Presidente del Consiglio dei ministri, sotto il controllo del Parlamento, della tutela del segreto di Stato quale strumento destinato alla salvaguardia della sicurezza dello Stato, v. le citate ordinanze nn. 244/2013, 69/2013 e 230/2008.
Non spettava alla Corte di cassazione affermare con sentenza la sindacabilità in sede giurisdizionale della delibera con cui il Consiglio dei ministri ha negato all'Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti (UAAR) l'apertura delle trattative per la stipulazione dell'intesa di cui all'art. 8, terzo comma, Cost.; conseguentemente, è annullata la relativa pronuncia adottata dalle sezioni unite civili, 28 giugno 2013, n. 16305. Nell'ordinamento costituzionale italiano l'intesa richiesta, ex art. 8, terzo comma, Cost., per la regolazione dei rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose diverse da quella cattolica presuppone il rispetto del metodo della bilateralità, cioè la necessità dell'incontro della volontà delle due parti già sulla scelta di avviare le trattative. Non è, quindi, configurabile la giustiziabilità della pretesa all'avvio delle trattative in quanto non è configurabile una pretesa soggettiva alla conclusione positiva delle trattative stesse, risultando altrimenti contraddittorio imporne l'illusoria apertura senza che se ne possa garantire giudizialmente la relativa conclusione. Alla luce di un ragionevole bilanciamento dei diversi interessi protetti dagli artt. 8 e 95 Cost., non è, quindi, configurabile - in capo ad una associazione che ne faccia richiesta, allegando la propria natura di confessione religiosa - una pretesa giustiziabile all'avvio delle trattative ex art. 8, terzo comma, Cost. Spetta, infatti, al Governo una discrezionalità ampia nel concedere all'associazione, che lo richiede, l'avvio delle trattative, il cui unico limite è rintracciabile nei principi costituzionali. L'eventuale atto di diniego all'apertura delle trattative - nella misura e per la parte in cui si fondi sul presupposto che l'interlocutore non sia una confessione religiosa - non può produrre, sulla sfera giuridica dell'associazione richiedente, ulteriori conseguenze negative, diverse dal mancato avvio del negoziato, in virtù dei principi espressi agli artt. 3, 8, 19 e 20 Cost. Sulla legittimazione della Corte di cassazione ad essere parte di un conflitto tra poteri dello Stato, v., ex multis , le citate sentenze nn. 29/2014, 24/2014, 320/2013 e 333/2011. Sui requisiti per l'ammissibilità di un ricorso per conflitto tra poteri promosso avverso una decisione giudiziaria, non potendosi trasformare in un improprio mezzo d'impugnazione della stessa, v. le sentenze nn. 88/2012, 81/2012, 259/2009, 195/2007 e 276/2003 nonché l'ordinanza n. 117/2006. Sull'intesa per la regolazione dei rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose diverse da quella cattolica, di cui all'art. 8, terzo comma, Cost., v. le sentenze nn. 346/2002, 235/1997 e 59/1958. Sul riconoscimento della libertà di organizzazione e di azione garantita a tutte le confessioni dai primi due commi dell'art. 8 Cost. e dall'art. 19 Cost., a prescindere dalla circostanza che esse abbiano o meno regolato i loro rapporti con lo Stato tramite accordi o intese, v. le sentenze nn. 346/2002, 195/1993 e 43/1988. Sul principio di laicità e, quindi, di imparzialità ed equidistanza rispetto a ciascuna confessione religiosa, v. le sentenze nn. 508/2000 e 329/1997. Sulla nozione di confessione religiosa, v. le sentenze nn. 195/1993 e 467/1992.
È ammissibile il ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri, in proprio e a nome del Consiglio dei ministri, nei confronti della Corte di cassazione in relazione alla sentenza con la quale è stato respinto, per motivi di giurisdizione, il ricorso proposto dal Presidente del Consiglio dei ministri avverso la decisione del Consiglio di Stato che aveva affermato la sindacabilità della deliberazione del Consiglio dei Ministri con la quale si era deciso di non avviare le trattative, ex art. 8, comma terzo, Cost., finalizzate alla conclusione dell'intesa tra lo Stato e l'Unione degli atei e degli agnostici razionalisti. Sotto il profilo del requisito soggettivo, va riconosciuta la legittimazione del ricorrente a promuovere conflitto, in quanto organo competente a dichiarare definitivamente la volontà del potere a cui appartiene; parimenti, deve essere riconosciuta la legittimazione della Corte di cassazione ad essere parte del conflitto di attribuzione. Quanto al profilo oggettivo, il ricorrente lamenta la lesione della propria sfera di attribuzione, costituzionalmente garantita dagli artt. 8, terzo comma, 92 e 95 Cost., in relazione alla funzione di indirizzo politico in materia religiosa. Sulla legittimazione dei singoli organi giurisdizionali ad essere parti di conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato, v. le citate sentenze nn. 69/2013 e 286/2014.