Articolo 8 - COSTITUZIONE
Massime della Corte Costituzionale
Testo dell'articolo aggiornato secondo le disposizioni legislative vigenti.
Testo dell'articolo aggiornato secondo le disposizioni legislative vigenti.
La libertà religiosa, di cui quella di culto costituisce un aspetto essenziale, non può essere subordinata alla stipulazione di intese con lo Stato da parte delle confessioni religiose. ( Precedenti citati: sentenze n. 63 del 2016 e n. 52 del 2016 ). Il principio di laicità - da intendersi non come indifferenza dello Stato di fronte all'esperienza religiosa, bensì come tutela del pluralismo, a sostegno della massima espressione della libertà di tutti, secondo criteri di imparzialità - non esclude che lo Stato regoli bilateralmente, e dunque in modo differenziato, i rapporti con le singole confessioni religiose (artt. 7 e 8 Cost.), per il soddisfacimento di esigenze specifiche, ovvero per concedere particolari vantaggi o imporre particolari limitazioni, o ancora per dare rilevanza, nell'ordinamento dello Stato, a specifici atti propri della confessione religiosa. Al legislatore (nazionale o regionale) non è invece consentito di operare discriminazioni tra confessioni religiose in base alla sola circostanza che esse abbiano o non abbiamo regolato i loro rapporti con lo Stato tramite accordi o intese, perché altro è la libertà religiosa, garantita a tutti senza distinzioni, altro è il regime pattizio. ( Precedenti citati: sentenze n. 63 del 2016, n. 52 del 2016, n. 508 del 2000, n. 329 del 1997, n. 440 del 1995, n. 203 del 1989 ). Per consolidata giurisprudenza costituzionale, la disponibilità di spazi adeguati ove rendere concretamente possibile, o comunque facilitare, le attività di culto rientra nella tutela di cui all'art. 19 Cost., il quale riconosce a tutti il diritto di professare la propria fede religiosa, in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitare in pubblico o in privato il culto, con il solo limite dei riti contrari al buon costume. ( Precedenti citati: sentenze n. 63 del 2016 e n. 195 del 1993 ).
È dichiarata non fondata, nei termini di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale - promossa dal Governo in riferimento agli artt. 3, 8 e 19 Cost. - dell'art. 2 della legge reg. Veneto n. 12 del 2016, nella parte in cui introduce, nella legge reg. Veneto n. 11 del 2004, l'art. 31- bis . La norma impugnata, nel riconoscere alla Regione e ai Comuni veneti il compito di individuare i criteri e le modalità per la realizzazione delle attrezzature religiose, prende in considerazione tutte le possibili forme di confessione religiosa (Chiesa Cattolica, confessioni religiose i cui rapporti con lo Stato siano disciplinati ai sensi dell'art. 8, terzo comma, Cost., e altre confessioni religiose), senza introdurre alcuna distinzione in ragione della circostanza che sia stata stipulata un'intesa con lo Stato, e non può quindi essere interpretata nel senso di consentire alla Regione e ai Comuni di realizzare la pianificazione di attrezzature religiose secondo criteri e modalità discriminatori in ragione della presenza o meno dell'intesa tra la confessione religiosa interessata e lo Stato. Ciò non esclude la possibilità che le autorità competenti operino ragionevoli differenziazioni, poiché l'eguale libertà delle confessioni religiose di organizzarsi e di operare non implica che a tutte debba assicurarsi un'eguale porzione dei contributi o degli spazi disponibili, essendo naturale che, nella distribuzione di utilità limitate (come le sovvenzioni pubbliche o la facoltà di utilizzare suolo), siano valutati tutti i pertinenti interessi pubblici e venga dato adeguato rilievo all'entità della presenza sul territorio dell'una o dell'altra confessione, alla rispettiva consistenza e incidenza sociale e alle esigenze di culto riscontrate nella popolazione. La paventata lesione dei principi costituzionali invocati (eguale libertà delle confessioni e libertà di religione) non discende, dunque, dal tenore della disposizione censurata in sé, ma dalle eventuali sue illegittime applicazioni, che potranno essere censurate, caso per caso, nelle opportune sedi giurisdizionali. ( Precedente citato: sentenza n. 63 del 2016, dichiarativa dell'incostituzionalità di norme della Regione Lombardia che imponevano alle confessioni religiose non firmatarie di intese con lo Stato requisiti differenziati e più stringenti per la programmazione e la realizzazione di luoghi di culto ).
È dichiarato costituzionalmente illegittimo [per violazione degli artt. 2, 3 e 117, terzo comma, Cost.] l'art. 2 della legge reg. Veneto n. 12 del 2016, nella parte in cui, nell'introdurre nella l. reg. Veneto n. 11 del 2004 l'art. 31- ter , al suo comma 3 [secondo periodo], dispone che «Nella convenzione può, altresì, essere previsto l'impegno ad utilizzare la lingua italiana per tutte le attività svolte nelle attrezzature di interesse comune per servizi religiosi, che non siano strettamente connesse alle pratiche rituali di culto». La disposizione impugnata dal Governo - avendo ad oggetto la pianificazione urbanistica degli edifici adibiti a luogo di culto - afferisce alla materia del "governo del territorio", di competenza legislativa concorrente. La Regione è titolata, nel regolare la coesistenza dei diversi interessi che insistono sul proprio territorio, a dedicare specifiche disposizioni per la programmazione e la realizzazione dei luoghi di culto e, nell'esercizio di tali competenze, può imporre quelle condizioni e quelle limitazioni, che siano strettamente necessarie a garantire le finalità di governo del territorio affidate alle sue cure. Eccede da un ragionevole esercizio di dette competenze l'introduzione di un obbligo, quale l'impiego della lingua italiana, del tutto eccentrico rispetto ai menzionati interessi e palesemente incongruo rispetto sia alla finalità della normativa regionale in generale, sia a quella della disposizione censurata in particolare. A fronte dell'importanza della lingua quale elemento di identità individuale e collettiva, veicolo di trasmissione di cultura ed espressione della dimensione relazionale della personalità umana, la disposizione impugnata si presta a determinare ampie limitazioni di diritti fondamentali della persona di rilievo costituzionale, in difetto di un rapporto chiaro di stretta strumentalità e proporzionalità rispetto ad altri interessi costituzionalmente rilevanti, ricompresi nel perimetro delle attribuzioni regionali. La legislazione regionale in materia di edilizia di culto trova la sua ragione e giustificazione - propria della materia urbanistica - nell'esigenza di assicurare uno sviluppo equilibrato ed armonico dei centri abitativi e nella realizzazione dei servizi di interesse pubblico nella loro più ampia accezione, che comprende perciò anche i servizi religiosi. ( Precedenti citati: sentenze n. 63 del 2016 e n. 195 del 1993 ). La lingua è elemento di identità individuale e collettiva, veicolo di trasmissione di cultura ed espressione della dimensione relazionale della personalità umana. ( Precedente citato: sentenza n. 42 del 2017 ).
È costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 3, 8, 19 e 117, secondo comma, lett. c ), Cost., l'art. 70, commi 2- bis , limitatamente alle parole «che presentano i seguenti requisiti:» e lett. a ) e b ), e 2- quater , della legge della Regione Lombardia 11 marzo 2005, n. 12 (introdotti dall'art. 1, comma 1, lett. b , della legge regionale 3 febbraio 2015, n. 2), in quanto impongono alle sole confessioni religiose non firmatarie di intese con lo Stato requisiti differenziati e più stringenti per la realizzazione di edifici di culto e di attrezzature destinate a servizi religiosi. L'ordinamento repubblicano è contraddistinto dal principio di laicità, da intendersi, non come indifferenza di fronte all'esperienza religiosa, bensì come salvaguardia della libertà di religione in regime di pluralismo confessionale e culturale. Il libero esercizio del culto costituisce un aspetto essenziale della libertà di religione (art. 19 Cost.) ed è, quindi, riconosciuto egualmente a tutti e a tutte le confessioni religiose (art. 8, commi primo e secondo, Cost.), a prescindere dalla stipulazione di un'intesa con lo Stato, che non costituisce, pertanto, condicio sine qua non per l'esercizio della libertà religiosa. Il legislatore non può operare discriminazioni tra confessioni religiose in base alla sola circostanza che esse abbiano o meno regolato i loro rapporti con lo Stato tramite accordi o intese. L'apertura di luoghi di culto, in quanto forma e condizione essenziale per il pubblico esercizio dello stesso, ricade nella tutela garantita dall'art. 19 Cost., il quale riconosce a tutti il diritto di professare la propria fede religiosa, in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitare in privato o in pubblico il culto, con il solo limite dei riti contrari al buon costume. Ciò non vuol dire che a tutte le confessioni debba assicurarsi un'eguale porzione dei contributi o degli spazi disponibili, dovendosi valutare tutti i pertinenti interessi pubblici e dare rilievo all'entità della presenza sul territorio, alla rispettiva consistenza e incidenza sociale e alle esigenze di culto riscontrate nella popolazione. La normativa regionale censurata, in quanto disciplina la pianificazione urbanistica dei luoghi di culto, attiene al «governo del territorio», di competenza legislativa concorrente; ciò nondimeno, la valutazione del rispetto del riparto di competenze tra Stato e Regioni richiede di tener conto, oltre che dell'oggetto, anche della ratio della normativa impugnata e di identificare correttamente gli interessi tutelati, nonché le finalità perseguite. La legislazione regionale in materia di edilizia di culto trova la sua ragione e la sua giustificazione nell'esigenza di assicurare uno sviluppo equilibrato ed armonico dei centri abitati e nella realizzazione dei servizi di interesse pubblico nella loro più ampia accezione, che comprende anche i servizi religiosi. Una lettura dei principi costituzionali evocati porta a concludere che la Regione è titolata, nel governare la composizione dei diversi interessi che insistono sul territorio, a dedicare specifiche disposizioni per la programmazione e la realizzazione di luoghi di culto; viceversa, essa esorbita dalle sue competenze se, ai fini dell'applicabilità di tali disposizioni, impone requisiti differenziati e più stringenti, per le sole confessioni per le quali non sia stata stipulata e approvata con legge un'intesa ai sensi dell'art. 8, terzo comma, Cost. Sul principio di laicità dello Stato, v. le citate sentenze nn. 508/2000, 329/1997, 440/1995 e 203/1989. Nel senso che la libertà di religione rappresenta un aspetto della dignità della persona umana, riconosciuta e dichiarata inviolabile ai sensi dell'art. 2 Cost., v. la citata sentenza n. 334/1996. Sul regime pattizio tra Governo e confessioni religiose, v. la citata sentenza n. 52/2016. Sulle finalità perseguite mediante gli accordi bilaterali, v. le citate sentenze nn. 52/2016, 235/1997 e 59/1958. Sul divieto di discriminazione tra confessioni religiose, v. le citate sentenze nn. 52/2016, 346/2002 e 195/1993. Per l'affermazione che la condizione di minoranza di alcune confessioni religiose non può giustificare un minor livello di protezione rispetto a quello delle confessioni più diffuse, v. la citata sentenza n. 329/1997. Sulla necessità della previa regolazione pattizia ai fini del riconoscimento giuridico di taluni atti di culto, v. la citata sentenza n. 59/1958. Nel senso che la pianificazione urbanistica dei luoghi di culto rientra nella materia del «governo del territorio», di competenza legislativa concorrente, v., ex plurimis , le citate sentenze nn. 272/2013, 102/2013 e 6/2013. Per la valutazione del rispetto del riparto di competenze tra Stato e Regioni, v., ex plurimis , le citate sentenze nn. 140/2015, 167/2014 e 119/2014. Per l'affermazione che la legislazione regionale in materia di edilizia del culto trova la sua ragione e la sua giustificazione nell'esigenza di assicurare uno sviluppo equilibrato ed armonico dei centri abitati e nella realizzazione dei servizi di interesse pubblico nella loro più ampia accezione, che comprende anche i servizi religiosi, v. la citata sentenza n. 195/1993.
Non è fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale - promossa dal Presidente del Consiglio dei ministri in riferimento agli artt. 3, 8 e 19 Cost. - dell'art. 72, comma 7, lett. g ), della legge della Regione Lombardia 11 marzo 2005, n. 12 (introdotto dall'art. 1, comma 1, lett. c , della legge regionale 3 febbraio 2015, n. 2), il quale stabilisce che il piano delle attrezzature religiose garantisca «la congruità architettonica e dimensionale degli edifici di culto previsti con le caratteristiche generali e peculiari del paesaggio lombardo, così come individuate nel PTR». Contrariamente a quanto argomentato dal rimettente, la disposizione impugnata non richiede, genericamente, che gli edifici di culto si conformino a non meglio identificate caratteristiche del «paesaggio lombardo», specificando, al contrario, che le caratteristiche cui devono conformarsi anche gli edifici di culto sono quelle individuate nel piano territoriale regionale (PTR). Letta nella sua integralità, comprensiva del rimando al PTR, la disposizione de qua esige che, nel valutare la conformità paesaggistica degli edifici di culto, si debba avere riguardo non a considerazioni estetiche soggettive, occasionali o estemporanee, come tali suscettibili di applicazioni arbitrarie e discriminatorie, bensì alle indicazioni predeterminate dalle pertinenti previsioni del piano. Così intesa, la disposizione censurata non è altro che una specificazione di quanto previsto in generale dagli artt. 19 e 20 della legge lombarda impugnata. L'eventuale cattivo uso della discrezionalità programmatoria, atto a penalizzare surrettiziamente l'insediamento delle attrezzature religiose, potrà essere censurato nelle sedi competenti.
Non spettava alla Corte di cassazione affermare con sentenza la sindacabilità in sede giurisdizionale della delibera con cui il Consiglio dei ministri ha negato all'Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti (UAAR) l'apertura delle trattative per la stipulazione dell'intesa di cui all'art. 8, terzo comma, Cost.; conseguentemente, è annullata la relativa pronuncia adottata dalle sezioni unite civili, 28 giugno 2013, n. 16305. Nell'ordinamento costituzionale italiano l'intesa richiesta, ex art. 8, terzo comma, Cost., per la regolazione dei rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose diverse da quella cattolica presuppone il rispetto del metodo della bilateralità, cioè la necessità dell'incontro della volontà delle due parti già sulla scelta di avviare le trattative. Non è, quindi, configurabile la giustiziabilità della pretesa all'avvio delle trattative in quanto non è configurabile una pretesa soggettiva alla conclusione positiva delle trattative stesse, risultando altrimenti contraddittorio imporne l'illusoria apertura senza che se ne possa garantire giudizialmente la relativa conclusione. Alla luce di un ragionevole bilanciamento dei diversi interessi protetti dagli artt. 8 e 95 Cost., non è, quindi, configurabile - in capo ad una associazione che ne faccia richiesta, allegando la propria natura di confessione religiosa - una pretesa giustiziabile all'avvio delle trattative ex art. 8, terzo comma, Cost. Spetta, infatti, al Governo una discrezionalità ampia nel concedere all'associazione, che lo richiede, l'avvio delle trattative, il cui unico limite è rintracciabile nei principi costituzionali. L'eventuale atto di diniego all'apertura delle trattative - nella misura e per la parte in cui si fondi sul presupposto che l'interlocutore non sia una confessione religiosa - non può produrre, sulla sfera giuridica dell'associazione richiedente, ulteriori conseguenze negative, diverse dal mancato avvio del negoziato, in virtù dei principi espressi agli artt. 3, 8, 19 e 20 Cost. Sulla legittimazione della Corte di cassazione ad essere parte di un conflitto tra poteri dello Stato, v., ex multis , le citate sentenze nn. 29/2014, 24/2014, 320/2013 e 333/2011. Sui requisiti per l'ammissibilità di un ricorso per conflitto tra poteri promosso avverso una decisione giudiziaria, non potendosi trasformare in un improprio mezzo d'impugnazione della stessa, v. le sentenze nn. 88/2012, 81/2012, 259/2009, 195/2007 e 276/2003 nonché l'ordinanza n. 117/2006. Sull'intesa per la regolazione dei rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose diverse da quella cattolica, di cui all'art. 8, terzo comma, Cost., v. le sentenze nn. 346/2002, 235/1997 e 59/1958. Sul riconoscimento della libertà di organizzazione e di azione garantita a tutte le confessioni dai primi due commi dell'art. 8 Cost. e dall'art. 19 Cost., a prescindere dalla circostanza che esse abbiano o meno regolato i loro rapporti con lo Stato tramite accordi o intese, v. le sentenze nn. 346/2002, 195/1993 e 43/1988. Sul principio di laicità e, quindi, di imparzialità ed equidistanza rispetto a ciascuna confessione religiosa, v. le sentenze nn. 508/2000 e 329/1997. Sulla nozione di confessione religiosa, v. le sentenze nn. 195/1993 e 467/1992.
È ammissibile il ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri, in proprio e a nome del Consiglio dei ministri, nei confronti della Corte di cassazione in relazione alla sentenza con la quale è stato respinto, per motivi di giurisdizione, il ricorso proposto dal Presidente del Consiglio dei ministri avverso la decisione del Consiglio di Stato che aveva affermato la sindacabilità della deliberazione del Consiglio dei Ministri con la quale si era deciso di non avviare le trattative, ex art. 8, comma terzo, Cost., finalizzate alla conclusione dell'intesa tra lo Stato e l'Unione degli atei e degli agnostici razionalisti. Sotto il profilo del requisito soggettivo, va riconosciuta la legittimazione del ricorrente a promuovere conflitto, in quanto organo competente a dichiarare definitivamente la volontà del potere a cui appartiene; parimenti, deve essere riconosciuta la legittimazione della Corte di cassazione ad essere parte del conflitto di attribuzione. Quanto al profilo oggettivo, il ricorrente lamenta la lesione della propria sfera di attribuzione, costituzionalmente garantita dagli artt. 8, terzo comma, 92 e 95 Cost., in relazione alla funzione di indirizzo politico in materia religiosa. Sulla legittimazione dei singoli organi giurisdizionali ad essere parti di conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato, v. le citate sentenze nn. 69/2013 e 286/2014.
Va disattesa l'eccezione preliminare di inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 54, comma 4, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali), come sostituito dall'art. 6 del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 24 luglio 2008, n. 125, prospettata in relazione al fatto che i vizi di legittimità costituzionale denunciati dal rimettente costituirebbero, in realtà, vizi dell'atto amministrativo oggetto dell'impugnazione davanti al TAR rimettente; quest'ultimo, infatti, ha esplicitamente scartato possibili interpretazioni conformi a Costituzione, in tal modo motivando sulla rilevanza della questione in modo plausibile. Sull'ammissibilità della questione di legittimità costituzionale in conseguenza di una plausibile motivazione sulla rilevanza v., tra le altre, le sentenze n. 140 del 2009, n. 227 e n. 265 del 2010. >
E' costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 3, primo comma, 23 e 97 Cost., l'art. 54, comma 4, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali), come sostituito dall'art. 6 del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 24 luglio 2008, n. 125, nella parte in cui comprende la locuzione «, anche» prima delle parole «contingibili e urgenti». Tale disposizione - attribuendo ai sindaci il potere di emanare ordinanze di ordinaria amministrazione, le quali, pur non potendo derogare a norme legislative o regolamentari vigenti, si presentano come esercizio di una discrezionalità praticamente senza alcun limite, se non quello finalistico - viola, da un lato, la riserva di legge relativa di cui all'art. 23 Cost., in quanto non prevede una qualunque delimitazione della discrezionalità amministrativa in un ambito, quello dell'imposizione di comportamenti, che rientra nella generale sfera di libertà dei consociati; dall'altro, viola l'ulteriore riserva di legge relativa di cui all'art. 97 Cost., poiché la pubblica amministrazione può soltanto dare attuazione, anche con determinazioni normative ulteriori, a quanto in via generale è previsto dalla legge; e viola, infine, anche l'art. 3, primo comma, Cost., giacché, in assenza di una valida base legislativa, gli stessi comportamenti potrebbero essere ritenuti variamente leciti o illeciti, a seconda delle numerose frazioni del territorio nazionale rappresentate dagli ambiti di competenza dei sindaci. Sulla medesima disposizione di legge v. la sentenza n. 196 del 2009. Sulla riserva di legge di cui all'art. 23 Cost., v., tra le altre, le sentenze n. 105 del 2003 e n. 190 del 2007.
Non è ammissibile, ai sensi dell'art. 37 della legge 11 marzo 1953, n. 87, il conflitto di attribuzione proposto da "Tosti Luigi, nella qualità di magistrato monocratico ordinario [...] presso il Tribunale di Camerino" nei confronti del Ministro della Giustizia. Infatti, in tanto un organo giudiziario, con funzioni giudicanti, è legittimato a proporre conflitto tra poteri dello Stato, in quanto esso sia attualmente investito del processo, in relazione al quale soltanto i singoli giudici si configurano come organi competenti a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartengono: nella specie, non solo nel ricorso, datato 25 novembre 2005, il ricorrente ammette di essersi astenuto dall'esercizio delle funzioni fin dal 9 maggio precedente, ma non prospetta alcuna menomazione delle attribuzioni costituzionalmente garantite agli appartenenti all'ordine giudiziario, esprimendo solo il personale disagio di un "lavoratore dipendente del Ministro della Giustizia" per lo stato dell'ambiente in cui deve svolgere la sua attività. > >- V., citata, ordinanza n. 144/2000.