Articolo 33 - COSTITUZIONE
Massime della Corte Costituzionale
Testo dell'articolo aggiornato secondo le disposizioni legislative vigenti.
Testo dell'articolo aggiornato secondo le disposizioni legislative vigenti.
La rilevanza solo ipotetica e virtuale delle questioni di legittimità costituzionale ne determina la manifesta inammissibilità. ( Precedenti: O. 46/2016 - mass. 38764; O. 34/2016 - mass. 38734 ). (Nel caso di specie, sono dichiarate manifestamente inammissibili, per il carattere ipotetico e virtuale della rilevanza, le questioni di legittimità costituzionale - sollevate dalla CTP di Taranto, in riferimento agli artt. 3, 24 e 33, quinto comma, Cost. - dell'art. 15, comma 2- sexies , primo periodo, del d.lgs. n. 546 del 1992, come introdotto dall'art. 9, comma 1, lett. f , n. 2, del d.lgs. n. 156 del 2015, che dispone che nella liquidazione delle spese del processo tributario a favore dell'ente impositore, dell'agente della riscossione e dei soggetti iscritti nell'albo di cui all'art. 53 del d.lgs. n. 446 del 1997, se assistiti da propri funzionari, si applicano le disposizioni per la liquidazione del compenso spettante agli avvocati, con la riduzione del venti per cento dell'importo complessivo ivi previsto. Il rimettente non solo afferma la sussistenza, nel caso di specie, della rilevanza in via meramente eventuale, ma soprattutto prospetta il presupposto perché possa trovare applicazione la norma sospettata come un'ipotesi «alternativa»).
Il diritto di petizione, previsto dall'art. 50 Cost., si configura quale diritto individuale, sebbene esercitabile collettivamente, regolato nella Parte I della Costituzione tra i rapporti politici, e non quale attribuzione costituzionale; non ci si trova, infatti, innanzi a una funzione attribuita dalla Costituzione a un determinato numero di cittadini o elettori, ma a un diritto del singolo, che mai potrebbe trovare tutela, quand'anche impedito, in sede di conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato. ( Precedente: O. 85/2009 - mass. 33258 ). Le attribuzioni suscettibili di generare un conflitto non possono che essere quelle previste nella Parte II della Costituzione, dedicata all'ordinamento della Repubblica. ( Precedenti: O. 39/2019 - mass. 42191; O. 164/2018 - mass. 40096; O. 277/2017 - mass. 39733; O. 256/2016 - mass. 39171; O. 121/2011 - mass. 35556 ). La natura, il contenuto e gli effetti giuridici del diritto di petizione lo differenziano dagli istituti dell'iniziativa legislativa e del referendum abrogativo dal momento che siffatti istituti, facenti parte dell'ordinamento della Repubblica, sono espressione della volontà popolare, esercitata da quorum di elettori predefiniti dalla stessa Costituzione, mentre la petizione, proprio perché mero diritto individuale, può essere presentata da qualsiasi cittadino e la sua natura non cambia ove sottoscritta da più cittadini. La presentazione di una petizione non determina un obbligo per le Camere di deliberare sulla stessa, né tantomeno di recepirne i contenuti, bensì un mero dovere di acquisirne il testo e assegnarlo alle commissioni competenti, come conferma la disciplina prevista nei regolamenti parlamentari. (Nel caso di specie, è dichiarato inammissibile, per carenza dei requisiti soggettivi ed oggettivi, il ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato dall'avvocato Daniele Gradara, in proprio e come rappresentante dei firmatari della petizione relativa al procedimento di conversione del d.l. n. 111 del 2021, avente ad oggetto l'obbligo di certificazione verde COVID-19, c.d. Green Pass, nei confronti di entrambe le Camere, del Presidente del Consiglio dei ministri, del Consiglio dei ministri e del Presidente della Repubblica, in seguito all'omesso esame da parte delle Camere della detta petizione. La mancanza dei requisiti di ammissibilità del conflitto preclude l'esame della richiesta di autorimessione della questione di legittimità costituzionale del d.l. n. 111 del 2021, come convertito, tra l'altro manifestamente irrilevante, per la carenza del necessario nesso di pregiudizialità tra la risoluzione della questione medesima e la definizione del giudizio. ( Precedenti: S. 313/2013 - mass. 37925; O. 101/2000 - mass. 25217 ).
Accolta, per violazione dell'art. 117, terzo comma, Cost., la questione di legittimità costituzionale dell'art. 9, commi 1 e 2, della legge reg. Calabria n. 1 del 2020, resta assorbita la censura relativa alla lesione dell'autonomia universitaria di cui all'art. 33, sesto comma, Cost.
Sono dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 41-bis, comma 2-quater, lett. a) e c), della legge n. 354 del 1975, censurato dal Magistrato di sorveglianza di Spoleto - in riferimento agli artt. 21, 33 e 34 Cost. - nella parte in cui, secondo il "diritto vivente", consente all'amministrazione penitenziaria (anziché nei singoli casi all'autorità giudiziaria, nelle forme e in base ai presupposti di cui all'art. 18-ter ordin. penit.) di adottare, nei confronti dei detenuti in regime speciale, il divieto di ricevere dall'esterno e di spedire all'esterno libri e riviste a stampa. L'adozione di tale misura non viola la libertà di manifestazione del pensiero (intesa nel suo significato passivo di diritto di essere informati) né il diritto allo studio, poiché non limita il diritto dei detenuti in regime speciale a ricevere e a tenere con sé le pubblicazioni di propria scelta, ma incide solo sulle modalità attraverso le quali dette pubblicazioni possono essere acquisite, imponendo di servirsi esclusivamente dell'istituto penitenziario, onde evitare che il libro o la rivista si trasformi in un veicolo di comunicazioni occulte con l'esterno, di problematica rilevazione da parte del personale addetto al controllo. Né gli eventuali inconvenienti che potrebbero derivare dalla "burocratizzazione" del canale di acquisizione delle pubblicazioni compromettono in misura costituzionalmente apprezzabile i diritti in questione, trovando in ogni caso ragionevole giustificazione alla luce delle esigenze poste a base del regime speciale. Fermo restando che l'anzidetta misura, nella sua concreta operatività, non deve tradursi in una negazione surrettizia del diritto (attraverso lungaggini e "barriere di fatto", su cui il magistrato di sorveglianza potrà esercitare la sua funzione di controllo), l'eventuale vulnus dei diritti del detenuto comunque non deriverebbe dalla norma, ma dalla sua non corretta applicazione, estranea al sindacato di legittimità costituzionale. ( Precedenti citati: sentenze n. 143 del 2013 e n. 376 del 1997; ordinanze n. 417 del 2004 e n. 192 del 1998, sulle finalità dello speciale regime ex art. 41-bis, comma 2; sentenze n. 112 del 1993, n. 826 del 1988 e n. 148 del 1981, sul diritto di essere informati ). In ordine al diritto dei detenuti di conoscere liberamente le manifestazioni di pensiero che circolano nella società esterna, la sua tutela - tanto costituzionale (art. 21 Cost.) quanto legislativa (artt. 18, sesto comma, e 18-ter, comma 1, lett. a, ordin. penit.) - è riferita alla facoltà del detenuto di scegliere con piena libertà i testi con i quali informarsi, senza che l'autorità amministrativa possa esercitare su essi una censura, restando invece indifferenti i mezzi mediante i quali gli viene garantito il diritto di entrare in possesso delle pubblicazioni desiderate. Analogo discorso vale, mutatis mutandis, per il diritto allo studio, che trova specifico riconoscimento in ambito penitenziario, quale componente primaria del percorso rieducativo del detenuto (artt. 19 ordin. penit., 41 e seguenti del d.P.R. n. 230 del 2000).
Sono dichiarati costituzionalmente illegittimi - per violazione dell'art. 76 Cost., in relazione all'art. 5, commi 1, lett. b), e 4, lett. f), della legge n. 240 del 2010 - l'art. 8 del d.lgs. n. 49 del 2012 e l'art. 10, comma 1, dello stesso d.lgs., limitatamente alle parole "al costo standard per studente,". Le disposizioni censurate dal TAR Lazio - nel rinviare a decreti ministeriali la definizione degli indici in base ai quali calcolare le voci di spesa rientranti nel costo standard unitario per studente in corso e la determinazione della percentuale del fondo per il finanziamento ordinario per le università (FFO) da ripartire in base ai nuovi criteri - lasciano indeterminati aspetti essenziali della riforma del sistema del finanziamento universitario e configurano una forma di sub-delega incompatibile con la legge di delega e con l'art. 76 Cost., poiché non si limitano ad affidare ad atti amministrativi l'esecuzione di scelte già delineate nelle loro linee fondamentali negli atti con forza di legge, ma dislocano di fatto l'esercizio della funzione normativa dal Governo, nella sua collegialità, ai singoli Ministri competenti, declassando la relativa disciplina a livello di fonti sub-legislative, con tutte le conseguenze, anche di natura giurisdizionale, che una tale ricollocazione comporta sul piano ordinamentale. In particolare, l'art. 8 si limita a indicare come voci di costo da considerare nell'emanando decreto ministeriale quelle esemplificativamente suggerite nel parere della VII Commissione del Senato, omettendo una più precisa individuazione delle spese da includere nel computo del costo standard nonché i criteri per la ponderazione di ciascuna voce. A sua volta, l'art. 10 - che demanda a un decreto ministeriale con validità almeno triennale l'individuazione della percentuale del FFO da ripartire in relazione al costo standard per studente - reitera in modo pressoché letterale la delega, senza aggiungere altre precisazioni in merito alla quota del FFO da distribuire in base al costo standard. Data l'esistenza di una riserva di legge in materia di ordinamento universitario (artt. 33 e 34 Cost.), doveva a fortiori ritenersi necessaria una maggiore precisione del decreto legislativo nell'individuazione dei criteri per delimitare l'esercizio del potere amministrativo, l'assenza dei quali non può giustificarsi per la natura tecnica delle relative valutazioni, sia perché il decreto legislativo per sua natura si presta meglio di altre fonti primarie a disciplinare profili tecnici, sia perché nelle determinazioni relative ai costi standard i profili tecnici sono frammisti ad altri, di natura politica.
Accolte - per violazione dell'art. 76 Cost. - le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 8 del d.lgs. n. 49 del 2012 e dell'art. 10, comma 1, dello stesso d.lgs. (quest'ultimo, nella parte in cui prevede che il Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca individui percentuali del fondo per il finanziamento ordinario per le università da ripartire in relazione al costo standard per studente), restano assorbiti gli ulteriori profili di censura riferiti agli artt. 33, 34 e 97 Cost.
La declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 8 del d.lgs. n. 49 del 2012 e di parziale illegittimità costituzionale dell'art. 10, comma 1, dello stesso d.lgs., in quanto determinata esclusivamente da vizi dell'esercizio del potere legislativo delegato, non impedisce ulteriori interventi in merito del Parlamento e del Governo, sui quali comunque incombe la responsabilità di assicurare, con modalità conformi alla Costituzione, la continuità e l'integrale distribuzione dei finanziamenti per le università statali, indispensabili per l'effettività dei principi e dei diritti consacrati negli artt. 33 e 34 Cost.
Come già affermato in relazione al "principio fondamentale" della tutela delle minoranze linguistiche (art. 6 Cost.), la lingua è elemento fondamentale di identità culturale e mezzo primario di trasmissione dei relativi valori, ovvero elemento di identità individuale e collettiva di importanza basilare. Ciò vale del pari per l'unica lingua ufficiale del sistema costituzionale - la lingua italiana - la cui qualificazione, ricavabile per implicito dall'art. 6 Cost. ed espressamente ribadita nell'art. 1, comma 1, della legge n. 482 del 1999 (in materia di tutela delle minoranze linguistiche e storiche), oltre che nell'art. 99 dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige, non ha evidentemente solo una funzione formale, ma funge da criterio interpretativo generale, teso a evitare che altre lingue possano essere intese come alternative alla lingua italiana o comunque tali da porre quest'ultima in posizione marginale. ( Precedenti citati: sentenza n. 88 del 2011, sulla tutela delle minoranze linguistiche come "principio fondamentale"; sentenze n. 62 del 1992, n. 15 del 1996, sul valore identitario della lingua; sentenza n. 28 del 1982, sull'italiano come "unica lingua ufficiale del sistema costituzionale"; sentenza n. 159 del 2009, sul primato della lingua italiana e sul rapporto con essa delle lingue minoritarie protette ). La lingua italiana è, nella sua ufficialità, e quindi primazia, vettore della cultura e della tradizione immanenti nella comunità nazionale, tutelate anche dall'art. 9 Cost. La progressiva integrazione sovranazionale degli ordinamenti e l'erosione dei confini nazionali determinati dalla globalizzazione non debbono costringerla in una posizione di marginalità: al contrario, e anzi proprio in virtù dell'emersione di tali fenomeni, il primato della lingua italiana non solo è costituzionalmente indefettibile, bensì - lungi dall'essere una formale difesa di un retaggio del passato, inidonea a cogliere i mutamenti della modernità - diventa ancor più decisivo per la perdurante trasmissione del patrimonio storico e dell'identità della Repubblica, oltre che garanzia di salvaguardia e di valorizzazione dell'italiano come bene culturale in sé. La centralità costituzionalmente necessaria della lingua italiana si coglie particolarmente nella scuola e nelle università, quali luoghi istituzionalmente deputati alla trasmissione della conoscenza nei vari rami del sapere e alla formazione della persona e del cittadino, e in tale contesto si incontra - combinandosi e, ove necessario, bilanciandosi - con altri principi costituzionali: ossia, con il principio d'eguaglianza, anche sotto il profilo della parità nell'accesso all'istruzione (diritto, questo, che la Repubblica, ai sensi dell'art. 34, terzo comma, Cost., ha il dovere di garantire, sino ai gradi più alti degli studi, ai capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi); con la libertà d'insegnamento, garantita ai docenti dall'art. 33, primo comma, Cost. (la quale, se è suscettibile di atteggiarsi secondo le più varie modalità, rappresenta pur sempre una prosecuzione ed una espansione della libertà della scienza e dell'arte); e con l'autonomia universitaria, riconosciuta e tutelata dall'art. 33, sesto comma, Cost. (che non deve peraltro essere considerata solo sotto il profilo dell'organizzazione interna, ma anche nel rapporto di necessaria reciproca implicazione con i diritti costituzionali di accesso alle prestazioni). ( Precedenti citati: sentenza n. 383 del 1998, sull'ordinamento unitario della pubblica istruzione e sull'autonomia universitaria; n. 240 del 1974, sulla libertà d'insegnamento; sentenza n. 7 del 1967, sulla funzione della scuola e delle università ).
Sono dichiarate non fondate, nei sensi e nei limiti di cui in motivazione, le questioni di legittimità costituzionale - sollevate dal Consiglio di Stato, sez. sesta giur., in riferimento agli artt. 3, 6 e 33 Cost. - dell'art. 2, comma 2, lett. l), della legge n. 240 del 2010, a norma del quale il rafforzamento dell'internazionalizzazione delle università può avvenire "anche" attraverso l'attivazione, nell'ambito delle risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente, di insegnamenti, di corsi di studio e di forme di selezione svolti in lingua straniera. L'obiettivo dell'internazionalizzazione degli atenei - che la censurata disposizione legittimamente intende perseguire, consentendo ad essi di proporre agli studenti una offerta formativa alternativa e di attirare discenti dall'estero - deve essere soddisfatto senza pregiudicare i principi costituzionali del primato della lingua italiana, della parità nell'accesso all'istruzione universitaria e della libertà d'insegnamento. Tali principi sarebbero illegittimamente sacrificati ove la disposizione censurata fosse interpretata nel senso che agli atenei sia consentito predisporre una generale offerta formativa che contempli interi corsi di studio impartiti esclusivamente in una lingua diversa dall'italiano, poiché l'esclusività della lingua straniera estrometterebbe integralmente e indiscriminatamente la lingua ufficiale della Repubblica dall'insegnamento universitario di interi rami del sapere, imporrebbe per l'accesso ai corsi la conoscenza di una lingua diversa dall'italiano, ostacolando il raggiungimento dei "gradi più alti degli studi" da parte dei soggetti, pur capaci e meritevoli, che non la conoscano affatto, e potrebbe essere lesiva della libertà d'insegnamento, incidendo significativamente sulle modalità di svolgimento dell'attività dei docenti e discriminandoli all'atto del conferimento degli insegnamenti in base a una competenza (conoscenza della lingua straniera) estranea a quelle verificate in sede di reclutamento nonché al sapere specifico che deve essere trasmesso ai discenti. Affinché sia compatibile con gli artt. 3, 6 e 33 Cost. (cui va aggiunto il non evocato, ma pertinente art. 34 Cost.), la disposizione censurata va interpretata nel senso (consentito dal suo portato semantico) di attribuire, alle università che lo ritengano opportuno, la possibilità di affiancare all'erogazione di corsi universitari in lingua italiana corsi in lingua straniera, nonché (in considerazione delle peculiarietà e delle specificità di determinati settori scientifico-disciplinari) di attivare esclusivamente in lingua straniera singoli insegnamenti, fermo restando che a tale ulteriore facoltà gli atenei, nell'ambito della propria autonomia, debbono far ricorso secondo ragionevolezza, proporzionalità e adeguatezza, così da garantire pur sempre una complessiva offerta formativa rispettosa del primato della lingua italiana, del principio d'eguaglianza, del diritto all'istruzione e della libertà d'insegnamento. Le legittime finalità dell'internazionalizzazione degli atenei non possono ridurre la lingua italiana, all'interno dell'università italiana, a una posizione marginale e subordinata, obliterando quella funzione, che le è propria, di vettore della storia e dell'identità della comunità nazionale, nonché il suo essere, di per sé, patrimonio culturale da preservare e valorizzare. L'autonomia universitaria riconosciuta dall'art. 33 Cost. deve pur sempre svilupparsi "nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato" e, prima ancora, dai diversi principi costituzionali che nell'ambito dell'istruzione vengono in rilievo.
Nel giudizio in via principale avente ad oggetto le leggi della Regione Friuli-Venezia Giulia concernenti le dichiarazioni anticipate di trattamento sanitario (DAT) dei cittadini con residenza o domicilio elettivo nella Regione, non è accolta l'eccezione di inammissibilità incentrata sull'assunto che il ricorso statale evoca il principio del consenso informato ai trattamenti sanitari senza illustrare le ragioni per cui sarebbero violati i parametri (artt. 2, 31, 32 e 33, primo comma, Cost.) ai quali, secondo la giurisprudenza costituzionale, il suddetto principio direttamente risale. I parametri invocati nel ricorso statale risultano coerenti con la natura della pretesa lesione e le censure sufficientemente argomentate, in quanto il Governo lamenta una violazione del riparto di competenze, in riferimento, tra le altre, alla materia «tutela della salute», di competenza concorrente ai sensi dell'art. 117, terzo comma, Cost. e individua il principio fondamentale al quale la legislazione regionale deve attenersi, identificandolo nel consenso informato. ( Precedente citato: sentenza n. 282 del 2002 ).