Articolo 660 - CODICE PROCEDURA PENALE
Massime della Corte Costituzionale
Testo dell'articolo aggiornato secondo le disposizioni legislative vigenti.
Testo dell'articolo aggiornato secondo le disposizioni legislative vigenti.
Manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 660, comma 5, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, secondo comma, 25, secondo comma, e 101 della Costituzione, nella parte in cui prevede che il ricorso per cassazione contro l'ordinanza che dispone la conversione delle pene pecuniarie non eseguite per insolvibilità del condannato ne sospende l'esecuzione e non attribuisce al giudice la facoltà di inibire l'effetto sospensivo quanto meno nelle ipotesi di palese inammissibilità del ricorso. Infatti, secondo i principi affermati nella sentenza n. 108/1987 e in un sistema processuale incardinato sul principio generale dell'effetto sospensivo delle impugnazioni, l'esclusione dell'effetto sospensivo del ricorso per cassazione sarebbe priva del benchè minimo fondamento giustificativo e potrebbe anzi recare grave nocumento all'interessato, attesa la normale brevità della pena da espiare a seguito della conversione. M.F.
Manifesta inammissibilità - per difetto palese di rilevanza - della questione di legittimità costituzionale degli articoli 17 (Pene principali: specie), 18 (Denominazione e classificazione delle pene principali) e 24 (Multa) del codice penale, nei limiti in cui non escludono l'applicabilità della pena pecuniaria all'imputato minorenne, nonche' dell'art. 660 (Esecuzione delle pene pecuniarie) del codice di procedura penale e dell'art. 102 della legge 24 novembre 1981, n. 689, nei limiti in cui non escludono l'applicabilità ai condannati minorenni della conversione della pena pecuniaria in pena diversa. Il giudice 'a quo', infatti, non è chiamato ad applicare nessuna delle norme censurate. M.R.
E' manifestamente inammissibile la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 660 del cod. proc. pen., nella parte in cui non consente la conversione delle pene pecuniarie non recuperate per insolvibilita' del condannato nel caso in cui quest'ultimo risulti irreperibile, sollevata dal Pretore in riferimento agli artt. 3, 27 e 112 Cost., in quanto la competenza a provvedere in ordine alla conversione delle pene pecuniarie non eseguite per insolvibilita' del condannato spetta, in via esclusiva, al magistrato di sorveglianza, sicche' solo quest'ultimo organo e' chiamato a fare applicazione della norma oggetto di impugnativa. red.: N. Oliva
L'applicabilita' del regime di conversione delle pene pecuniarie ai condannati minorenni non contrasta con il principio di uguaglianza, in relazione alla diversita' di conseguenze che derivano a seconda che i minori abbiano o meno genitori abbienti e disponibili al pagamento della pena pecuniaria. Come risulta dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, pur non potendosi non convenire, anche relativamente ai soggetti maggiorenni, che appare insanabilmente contraddittorio pretendere di fondare la soddisfazione del principio di eguaglianza di fronte al reato ed alla pena proprio sul sacrificio dell'eguaglianza stessa, introducendo una discriminazione determinata unicamente dalle condizioni del condannato, occorre, pero', anche ribadire come non sia concretamente evitabile ne' la previsione di misure succedanee alla pena pecuniaria non corrisposta per insolvibilita', ne' che queste possano incorporare, rispetto a quella, un margine di maggiore afflittivita', purche' vengano adottate misure sostitutive che riducano al minimo possibile tale divario e che nel contempo si adottino disposizioni che, agevolando l'adempimento della pena pecuniaria e rendendo effettivo il controllo sulla sussistenza di reali situazioni di insolvibilita', circoscrivano nella massima misura possibile l'area della concreta operativita' della conversione: un assetto, quest'ultimo, che puo' ritenersi raggiunto in forza nel nuovo sistema di conversione introdotto dalla modificazione dell'art. 136 cod. pen., senza contare la disciplina della dilazione e del pagamento rateale, utilizzabile anche dai condannati minorenni. Il principio di uguaglianza non e' leso neppure sotto il profilo della diversita' di regime rispetto a quello delle spese processuali, al cui obbligo sono sottratti i condannati minorenni a norma dell'art. 29 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 272, trascurando del tutto il giudice 'a quo' che la 'ratio' alla base della norma ora ricordata e', come puntualizzato nei lavori preparatori di tale corpo normativo, di evitare che il carico delle spese finisca per gravare, piu' che sul minore, sulla sua famiglia, cosi' da non corrispondere al suo scopo intrinseco e da risolversi in un'ulteriore penalizzazione dei familiari; 'ratio' certo non invocabile con riferimento alla pena pecuniaria, il cui pagamento ed il cui conseguente regime derivante dall'insolvibilita' si giustificano, oltre tutto, in funzione del principio dell'inderogabilita' della pena (Manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale, in riferimento all'art. 3 Cost., dell'art. 660, comma 2, cod. proc. pen.). - V. massima B. Circa l'incostituzionalita' del precedente regime di conversione, v. S. n. 131/1979. Sull'istituto in questione, dopo la riforma recata dalla legge 24 novembre 1981, n. 689 (art. 101) v. S. n. 108/1987. red.: G. Conti
L'applicabilita' del regime di conversione delle pene pecuniarie ai condannati minorenni non contrasta con il principio della personalita' della responsabilita' penale, per via della possibilita' che l'adempimento dell'obbligazione derivante dalla pena pecuniaria venga effettuato dagli esercenti la potesta' sul minore, trattandosi di obbligazione cui essi non sono tenuti se non nei casi stabiliti dall'art. 196 cod. pen., in cio' certamente non lesivo del principio della responsabilita' penale personale. Va inoltre considerato che l'attivita' di rappresentanza ed amministrazione degli esercenti la potesta' sul minore consente a costoro di provvedere al pagamento della pena pecuniaria inflitta ove l'incapace di agire sia titolare di un proprio patrimonio (Manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale, in riferimento all'art. 27 Cost., dell'art. 660, comma 2, cod. proc. pen.). - V. massima A. red.: G. Conti
Come sostenuto dalla dottrina e come emerge dai lavori preparatori del nuovo codice di procedura penale, alla luce anche dei principi affermati dalla Corte, l'interpretazione da dare all'art. 660, terzo comma, cod. proc. pen. non e' quella, come erroneamente ritenuto dal giudice 'a quo', secondo la quale il potere di differimento (per un tempo non eccedente i sei mesi) della conversione della pena pecuniaria per i casi di temporanea insolvenza e' esercitabile dal magistrato di sorveglianza per non piu' di due volte, bensi' quella secondo la quale e' consentita la libera reiterabilita' del differimento sin che lo stato di insolvenza non venga a risolversi o nella solvibilita' (nel qual caso si procedera' alla esazione della somma dovuta) o nella insolvibilita' (nel qual caso si procedera' a conversione). Pertanto la questione circa la lamentata impossibilita' di differire ripetutamente la conversione della pena pecuniaria nelle ipotesi in cui perduri la temporanea insolvenza, tra le quali rientra certamente quella in cui si viene a trovare il condannato fallito nei cui confronti la procedura fallimentare non sia ancora chiusa, deve essere dichiarata infondata, data l'erroneita' della premessa interpretativa da cui parte il giudice 'a quo'. (Non fondatezza della questione di legittimita' costituzionale, in riferimento all'art. 3 Cost., dell'art. 660, terzo comma, cod. proc. pen.). - Su analoghe questioni sorte riguardo all'art. 136 cod. pen. e al nuovo regime introdotto in materia dalla legge n. 689 del 1981, v. S. nn. 149/1971, 131/1979, 108/1987. red.: F.S. rev.: S.P.
Nell'impugnare, in riferimento agli artt. 27, primo comma, 3, primo comma, 3, secondo comma, 4, primo comma, e 27, terzo comma, Cost., le norme che disciplinano la conversione della pena pecuniaria per insolvibilita' in liberta' controllata contenute negli artt. 56, 62, 64, 102, 103 e 107, legge n. 689 del 1981, e 660 cod. proc. pen., in quanto, dipendendo la conversione dal "dato di fatto della insolvibilita'", anche se incolpevole, la stessa diviene pressocche' inevitabile nelle ipotesi in cui (come nella specie) la pena pecuniaria sia di rilevante entita', e la liberta' controllata finisce quindi con l'imporre un carico afflittivo maggiore rispetto alla pena pecuniaria convertita, specie nella parte in cui prescrive, senza possibilita' di deroga, il ritiro del passaporto, con la conseguenza che l'abbiente e il non abbiente sono sottoposti a differenti sanzioni anche se identica e' la loro responsabilita', e a chi svolge la sua normale attivita' lavorativa anche all'estero (come, nella specie, l'autotrasportatore) si impedisce di lavorare, il giudice 'a quo' - a parte l'ambiguita' con cui le suddette censure vengono cumulativamente formulate - non mira alla caducazione 'sic et simpliciter' dell'intero sistema che regola la conversione delle pene pecuniarie, ma - come nella ordinanza di rinvio esplicitamente si afferma - ad ottenere una pronuncia che gli consenta di modulare le prescrizioni della sanzione sostitutiva in funzione delle esigenze lavorative del condannato, senza peraltro indicare attraverso quale manipolazione normativa ed entro quali confini un siffatto potere di articolazione potrebbe essere additivamente costruito dalla Corte. La pluralita` delle soluzioni possibili, nessuna delle quali costituzionalmente imposta, e la necessita' di prefigurare una coerente disciplina di dettaglio, coinvolgono quindi aspetti che chiaramente rientrano nella sfera esclusiva della discrezionalita' legislativa, dovendosi altresi' rilevare, in particolare, che, se e' vero che, in base ai principi affermati dalla stessa Corte costituzionale anche con riferimento alla conversione della pena pecuniaria, il massimo privilegio deve essere assegnato al lavoro quale ineludibile strumento di emenda, resta il fatto che le peculiarita' insite in una attivita' lavorativa che comporti frequenti spostamenti all'estero, in tanto possono trovare equilibrato soddisfacimento, in quanto le relative modalita' attuative non finiscano per svuotare integralmente di contenuto la sanzione sostitutiva applicata. Onde l'auspicio che la problematica - non certo di secondaria importanza - posta in risalto dall'autorita' rimettente - trovi risposta in una tempestiva revisione in sede legislativa delle norme impugnate. (Inammissibilita' delle questioni di legittimita' costituzionale, in riferimento agli artt. 27, primo comma, 3, primo comma, 3, secondo comma, e 4, primo comma, e 27, terzo comma, Cost., degli artt. 56, 62, 64, 102, 103 e 107, legge 24 novembre 1981, n. 689, e 660 cod. proc. pen.). - In precedenza, con analoga decisione di inammissibilita' su questione concernente anch'essa la determinazione delle modalita' esecutive della sanzione sostitutiva della liberta' controllata, O. n. 147/1989. Sulla importanza del lavoro ai fini rieducativi di cui all'art. 27, terzo comma, Cost., v. S. n. 131/1979. red.: S.P.
Le questioni di legittimita' costituzionale sollevate, in riferimento agli artt. 25, secondo e terzo comma, 27, primo comma, e 3 Cost., nei confronti degli artt. 102, 103 e 107 della legge n. 689 del 1981, e degli artt. 133-bis e 133-ter del codice penale, in relazione all'art. 660 del codice di rito, in quanto la disciplina dettata dai primi in ordine alla conversione della pena pecuniaria, dato il limite massimo posto all'applicazione della misura della liberta' controllata - da cui il condannato potrebbe essere indotto, per beneficiarne, a "far sparire i suoi beni" - e la pratica impossibilita' di usufruire della rateizzazione quando le somme da pagare siano particolarmente elevate, non risulterebbe satisfattiva del principio della inderogabilita' della pena, ed in quanto - per cio' che attiene agli artt. 133-bis e 133-ter - tali disposizioni articolerebbero con tecniche non ottimali il metodo di adeguamento delle pene pecuniarie alle condizioni economiche del reo, non possono essere decise nel merito. Infatti - a parte la genericita' dei quesiti e la vaghezza dei "casi" prospettati - esse si imperniano sulla richiesta di una pronuncia della Corte costituzionale che, limitatamente alle ipotesi di pene pecuniarie di ingente misura, "riadegui" l'intero sistema delle pene pecuniarie, il che presuppone delle scelte discrezionali che solo il legislatore e' abilitato a compiere. Atteso che lo stesso metodo dei "tassi giornalieri di reddito" - nella ordinanza di rimessione particolarmente auspicato - non puo' ritenersi ne' l'unico teoricamente utilizzabile, ne', 'a fortiori' - come anche il giudice 'a quo' mostra del resto di avere avvertito - un meccanismo che la Corte potrebbe iscrivere nel sistema senza sconvolgerlo. (Inammissibilita' delle questioni di legittimita' costituzionale, in riferimento agli artt. 25, secondo e terzo comma, 27, primo comma, e 3 Cost., degli artt. 102, 103 e 107, legge 24 novembre 1981, n. 689, e degli artt. 133-bis e 133-ter cod. pen., in relazione all'art. 660 cod. proc. pen.). - Sui "tassi giornalieri di reddito", v. S. n. 131/1979. red.: S.P.